IL CORREDO DA SPOSA AI TEMPI DI “MAMMA GRANNI”
Ai tempi di “mamma ranni” (così era chiamata la nonna, dal francese “grand mere”), diciamo prima degli anni ’50, una giovanetta in età di matrimonio,
appartenente a qualunque classe sociale, non aveva molte alternative: o sceglieva la vita conventuale o il matrimonio. Chi aveva avuto la possibilità di scegliere il matrimonio, fatto il fidanzamento, doveva avere già pronto il corredo da sposa, indispensabile in quegli anni. Il corredo si iniziava a preparare sin dalla nascita della bambina; allora si diceva: “La figghia ‘nta la fascia e la doti ‘nta la cascia” (“la cascia”, esattamente si chiamava “lu cascebancu” = la cassapanca, dove si sistemava la biancheria man mano che si preparava; per ultimo si poneva l’abito da sposa.). I vari capi erano ricamati a mano dalla mamma, dalla nonna, dalla stessa ragazza o da ricamatrici di professione, a cui si forniva il lino o il “matapollu” (madapolam) o la pelle d’ovo (cotone leggero e fresco); si trattava di veri capolavori artigianali, che facevano parte della dote. Non c’era ragazza che non partecipasse al lavoro per il suo corredo; tutte sapevano adoperare il telaio, usare il cerchietto, magari solo per realizzare piccoli ricami per i capi di tutti i giorni. Il corredo, oltre ad essere un obbligo era l’elemento essenziale per la sposa, per inserirsi bene fra i nuovi parenti e fra tutta la comunità. Un corredo completo si componeva di capi, che facevano parte del “corredo per la casa” e altri per il “corredo personale”. Il corredo per la casa di una ragazza ricca era solitamente formato da lenzuola matrimoniali e per letti singoli, federe, asciugamani di tela d'Olanda grandi, più quelle per gli ospiti, tovaglie da tavola d'organza o lino oltre a quelle per tutti i giorni, fazzoletti, asciugatoi per la cucina, quadrati con l’orlino a giorno da adoperare per spolverare o pulire vetri e specchi, asciugamano di lino. Le lenzuola erano orlate a punto a giorno, ricamate e lavorate a traforo. Gli asciugamani di lino, riccamente lavorati, erano usati solamente, quando si aspettava la visita del medico o di qualche ospite; in quell’occasione, l’asciugamano si appendeva (quasi in bella mostra) alla “vacilera” di ferro battuto, con “vacili e cannata” ( bacinella e brocca) di lamiera smaltata, pieni d’acqua. Alcuni di questi manufatti, fra i più pregiati per qualità e motivi ornamentali, spesse volte non erano usati per tutta la vita oppure occasionalmente in qualche cerimonia, come puerperio o malattia. Il corredo personale, invece, includeva camicie da notte di freschissimo cotone e di seta finemente ricamate, cuffiette di pizzo, corpetti di sangallo, mutandoni alla caviglia o al ginocchio, culottes con inserti di pizzo, sottovesti, matinée e vestaglie di seta, con ricami e merletti preziosi, camicioni di lino, giarrettiere, babbucce di calda lana e berretti per la notte, liseuses (giacchette molto morbide con maniche ampie), che quando cominciava a far fresco si usavano sulla camicia da notte; inoltre, lu bustiddu (in sostituzione dell’attuale reggiseno), la camicia da giorno, le calze di cotone fatte a mano, lunghe fino al ginocchio, sorrette da un legaccio, mutandoni fino alle caviglie aperti davanti e dietro, la gonna, (la caruta), la camicetta (lu ippuni). scialli, sciallini, grembiuli, vestiti e camicette; infine: “causi di tila, suttana e pacchiana” (mutande, sottana e camicia da notte La donna, di notte, indossava sui mutandoni una lunga camicia e d’inverno una giacca (lu spensaru). Anche gli uomini indossavano camicioni da notte con mutandoni che arrivavano alla caviglia. La biancheria del corredo personale della sposa si preparava a quattro, a sei, a otto e a dieci e a dodici, ma anche a diciotto capi per ogni elemento, I capi di biancheria andavano in proporzione in relazione dei diversi manufatti, per la metà, per intero o per il doppio. Così, con un corredo ad otto si davano otto paia di lenzuola, quattro coperte, quattro busti, quattro sottane, sedici camicie. Nelle famiglie più ricche il corredo non aveva alcun limite nella sua formazione. Si partiva da un minimo di dodici per arrivare anche a cinquanta capi. Inoltre, facevano parte del corredo: coperte a filet, a tombolo, trapunte; mantelline da mettere sulle spalle quando ci si pettinava, porta camice da notte, porta pettini, servizietti da thè, centrini da collocare sui mobili, ecc. La “cuttunina” (la trapunta o coperta imbottita, che oggi corrisponde al piumone) veniva trapuntata con un filo per renderla compatta ed uniforme, poteva essere di lana, cotone o crine. I colori erano sempre gli stessi: da una parte rossa e da un’altra parte gialla. Il suo allestimento richiedeva molto tempo e perizia: si lavava il pavimento e vi si distendeva il primo strato di stoffa, la si ricopriva con uno spesso strato di cotone, quindi si sistemava sopra lo strato di stoffa superiore, che prima era stato disegnato. Il tutto si arrotolava e si passava al telaio, dove veniva ricamata, con l’aiuto di più persone, svolgendo e riavvolgendo man mano che se ne terminava una parte. La funzione del copriletto matrimoniale di seta, non era solo dettata dalla necessità estetica, ma, con orgoglio, veniva mostrato nelle grandi occasioni, come in caso di un parto, di una festa familiare, e in occasioni in cui si doveva esporre sui balconi e alle finestre in onore di un Santo che passava in processione. Il valore e la bellezza del copriletto di seta erano il simbolo del livello economico della famiglia e indicava anche lo strato sociale di appartenenza. Le figlie dei contadini portavano un corredo modesto di biancheria personale; le figlie dei massari portavano, oltre al corredo, una piccola dote, mentre i piccoli proprietari, oltre il corredo, davano alle loro figlie una cospicua dote. Non era così per le figlie dei galantuomini (i ricchi benestanti), che portavano un ricco corredo, oltre alla dote patrimoniale. I più poveri, non avendo i soldi per il corredo e per lo sposalizio, adottavano il sistema sbrigativo della "fuitina", cioè scappavano di nascosto (si fa per dire) dei genitori; dopo, seguiva il matrimonio riparatore senza festa. Un proverbio in merito diceva: “Lu fuiri è vriogna, ma è sarvamentu di vita”. Le famiglie benestanti tenevano molto alla loro proprietà e, spesse volte, i matrimoni venivano programmati fra cugini, così la “roba” restava in famiglia. All’approssimarsi del matrimonio, il corredo veniva lavato e stirato, dalla futura sposa e da sua madre. In un passato, che va oltre la mia memoria, la biancheria veniva valutata, ai fini della dote, da due donne di fiducia ed elencata in una “minuta”. A conteggio compiuto, si calcolava l'importo che lo sposo doveva portare in dote come contropartita. Il tutto era scritto e firmato da lui e dal padre della ragazza. Otto giorni prima del matrimonio, in casa della futura sposa, si faceva un banchetto, che si poteva considerare un addio al nubilato, a cui partecipavano i parenti più intimi d'ambo le parti. Nello stesso periodo, e per tre giorni, si esponeva detto corredo o, per come si diceva allora, si metteva “la biancheria esposta”. In quell’occasione gli invitati alle nozze portavano i regali di rito e, mentre la madre della sposa comunicava il numero dei capi, essi osservavano con occhio critico tutto con attenzione, toccavano la stoffa, per verificarne la qualità e controllavano se i ricami erano fatti bene. Avevano modo di vedere anche i vestiti, fra cui quello degli otto giorni dopo il matrimonio da indossare per andare a fare visita al compare e quello dei quindici giorni, che si usava quando finalmente si usciva da casa, per andare a far visita ai parenti: per lo più era nero con un fiore colorato su una spalla. Agli invitati, in quella occasione, si offriva loro “calia, simenza, noccioline” (semi vari tostati), frutta fresca (non c’è da meravigliarsi, ma, la frutta allora era considerata un bene voluttuario) e “rasoliu” (liquore fatto in casa) o vino stravecchio di botte. Anche l’uomo aveva un corredo, fatto da capi di biancheria personale, da due paia di scarpe, uno per la campagna e uno per uscire e da pantaloni di fustagno e un altro di velluto e qualche giacca: il tutto era pure messo in mostra in un lato della stanza che conteneva il corredo della ragazza. Poteva andare a visionare la biancheria anche chi non era stato invitato al matrimonio, come qualche vicina di casa, che portava un pensierino di poco conto. Durante queste visite, si mostravano anche i vari regali che i fidanzati si erano scambiati nel corso del fidanzamento e quelli che gli invitati alle nozze avevano portato e che erano disposti in un’altra stanza. Erano giorni molto faticosi per i familiari della sposa, perché ogni volta che arrivava una nuova persona, dovevano ripetere sempre la stessa tiritera. Gli invitati, rispetto ai giorni nostri erano limitati ai parenti, alle famiglie del compare di battesimo e cresima e a qualche amico d’infanzia. Generalmente gli invitati sceglievano come regalo, servizi di rosolio, di acqua, di caffè. Le liste di nozze erano di là da venire e perciò i duplicati dei regali non mancavano. L’ultimo dono era quello fatto dal compare d’anello: un anello. VITO MARINO