(di Agostino Spataro) - Ricordate quella voce metallica che usciva, un po’ graffiata, dall’altoparlante per avvisare i viaggiatori “Termini Imerese, stazione di Termini Imerese, per Milano (o Torino) si cambia” ? Uso l’imperfetto perché meglio sollecita il ricordo,

ma potrei usare benissimo il presente giacché Termini resta la principale stazione siciliana di cambio, da e verso il Continente. Era un normale cambio di treno, ma per chi doveva effettuarlo spesso segnava l’inizio del distacco, dello sradicamento dalla famiglia e dalla terra natia, una svolta drammatica della vita, un atto disperato verso l’ignoto. Infatti, quei treni mostruosi correvano verso terre e città sconosciute, perfino temute. Qualche notizia si aveva da quelle poche righe sgangherate scritte da qualcuno che già vi si era avventurato. Così è cominciata l’ultima storia della gran parte dei siciliani che nel dopoguerra diedero inizio a un nuovo esodo. Ai treni, ai macchinisti è toccato il compito più ingrato: trasportare centinaia di migliaia di persone oneste ma stanche d’essere massacrate da lavori umilianti e malpagati, dalle più gravi ingiustizie e dalle angherie di campieri e mafiosi. Per alcuni quei luoghi ambiti si rivelavano un triste ritorno giacché vi erano stati al fronte con gli scarponi di cartone o prigionieri nei lager nazisti. “Termini Imerese si cambia” e cambiar si doveva perché quella era l’unica via di fuga dall’inferno, l’unica speranza per i nostri padri e fratelli senza terra che, da secoli, avevano cercato, inutilmente, un lavoro degno, una casa, una scuola per i figli. E qui mi fermo, perché desidero parlare del dramma attuale che Termini Imerese e la Sicilia stanno vivendo, perché non vorremmo che a quel “cambio” dovesse essere costretta altra gente che un lavoro e una casa già l’hanno. E deve esser anche chiaro che ho usato questa immagine non per demagogia né per intenerire il cuore di qualcuno, ma solo per tentare di ridestare la coscienza, la dignità dei siciliani onesti e laboriosi i quali, pur costituendo una stragrande maggioranza, non sono mai riusciti ad esprimere un governo conforme ai loro bisogni e alle loro aspettative. LA CHRYSLER SI SALVA MENTRE TERMINI AFFONDA Ma andiamo al fatto. Non entrerò negli aspetti più tecnici della vertenza Fiat (per incompetenza), desidero solo soffermarmi sui suoi risvolti politici e sociali conseguenti al “decreto” ingiuntivo del signor Marchionne. Col passare dei giorni e l’acutizzarsi delle tensioni, si amplia e si chiarisce l’arco delle responsabilità, dei silenzi, delle passività che ci inducono a concludere che l’eventuale chiusura della Fiat di Termini sarebbe l’ennesima, pesante sconfitta della politica e dei governi di Palermo e di Roma. E un po’ anche dei sindacati. Anche se, purtroppo, a farne le spese saranno i nobili operai termitani che stanno lottando, a mani nude, contro una multinazionale italiana che riesce a salvare decine di migliaia di posti lavoro negli Usa, ma non riesce a salvare, al limite riconvertendone la produzione, lo stabilimento siciliano, per altro lautamente incentivato con finanziamenti pubblici, diretti e indiretti. Se Termini dovesse chiudere, credo si potranno rivedere tante cose nella politica e nell’economia siciliane e non solo. A cominciare dal ruolo svolto da questo corteo pietrificato di ministri, sottosegretari, presidenti, assessori, parlamentari, segretari di partito e quant’altro i quali, invece d’impuntarsi per difendere il diritto al lavoro, sembrano avere già indossato l’abito scura per partecipare ai suoi funerali. Cattiva volontà o impotenza? Personalmente, propendo per la seconda ipotesi. Infatti, più che bloccata, la politica oggi appare esausta, sfinita. Soprattutto sul fronte della difesa dei diritti sociali e civili dei cittadini. Non tutta la politica per fortuna, ma in giro, ci sono troppa rassegnazione, remissione, accettazione ossia tutti gli ingredienti necessari per preparare e servire, in un piatto d’argento, pappa d’oro a società anonime e ai loro manager super pagati. Quasi non si avessero buone ragioni e solidi propositi per richiamare Marchionne al tavolo, non della trattativa, ma delle responsabilità. LE PRETESE DEL MERCATO E LE RAGIONI DEGLI UOMINI La “caduta” di Termini Imerese potrebbe innescare conseguenze drammatiche nel comprensorio e nell’intera Sicilia. Perciò, bisogna fare di tutto per evitarla. Ancora ci sono tempo e risorse per far mutare avviso al signor Marchionne. Purtroppo, l’impressione che si è data, in primo luogo da parte del ministro Scaiola, è stata quella di una fretta ingiustificata nel prendere atto del disimpegno di Fiat. Solo oggi si sono fatti sentire il presidente del Senato Schifani (che è anche senatore del collegio) e quello del Consiglio Berlusconi. Vedremo domani cosa accadrà. In ogni caso, c’è una responsabilità politica ineludibile, giacché quello che da Torino o da Detroit si vede come “un ramo secco”, “non competitivo”, è per la Sicilia un insediamento strategico sul piano dello sviluppo e persino su quello morale. Giacché la chiusura di Fiat-Termini sarebbe anche un duro colpo allo stato d’animo dei siciliani. Soprattutto dei giovani, non perché tutti pensano d’andarsi ad occupare alla Fiat, quanto perché vedrebbero rompersi un legame importante con la multinazionale torinese il cui abbandono suonerebbe come un’amara notifica che per loro, per l’Isola non c’è speranza d’inserirsi nel mercato globale. Si obietterà: ma siamo in un mercato libero, globale. Questo è vero, tuttavia, non tutto può essere immolato sull’altare del massimo profitto. La competitività, i profitti non devono far dimenticare che viviamo dentro società (umane intendo), fragili e smarrite, che non sopporterebbero oltre la perdita improvvisa di diritti fondamentali, qual è il lavoro, di simboli e valori morali che mai potranno essere scambiati in Borsa. Perciò, signori, attenti all’ingordigia, a strafare. Nessuno invoca la rivoluzione, ma solo un po’ di moderazione, di rispetto per i bisogni dei più deboli, della gran parte dei lavoratori che non vogliono più cambiare treno, né a Termini né a Catania, per andarsi a cercare un lavoro altrove. Ma dove? Forse in India o in Cina? (continua/1)