Sedici giovani professionisti italiani espatriati hanno scritto una lettera-appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e ai quattro Presidenti emeriti. Denunciano lo stato di grave difficoltà in cui si trovano l’Italia e i suoi giovani. Spiegano perché se ne sono andati. E mettono nero su bianco a quali condizioni potrebbero tornare.

I sedici giovani fanno parte del progetto blog/libro “La Fuga dei Talenti”. Questo è il testo della lettera:

Illustrissimi Presidenti Giorgio Napolitano,

Carlo Azeglio Ciampi,

Oscar Luigi Scalfaro,

Francesco Cossiga

 p.c. Presidente del Senato On. Renato Schifani

Presidente della Camera dei Deputati On. Gianfranco Fini

Ministro della Gioventù On. Giorgia Meloni,

Milano, 4 dicembre 2009

negli ultimi anni centinaia di migliaia di giovani italiani sono emigrati all’estero, per fuggire dal Paese più immobile d’Europa. Un concentrato di immeritocrazia, nepotismo e gerontocrazia che ha pochi pari nel Vecchio Continente. Un Paese che, dati alla mano, preferisce parcheggiare i propri giovani – le forze più creative e innovative della società –, relegandoli in angoli spesso scomodi, tra lavori precari e un welfare state a quasi totale carico della famiglia di origine, anche per questo l’Italia non è Europa. I protagonisti del progetto “La Fuga dei Talenti” Vi scrivono la seguente lettera, per chiedervi aiuto. Avviate voi per primi, con l’autorità morale di cui godete, il cambiamento. Rendete questo Paese un luogo dove i giovani possano vivere e affermarsi solamente sulla base del proprio merito, senza bisogno di parentele e cooptazioni. Rendete l’Italia una democrazia finalmente compiuta. SIGNORI PRESIDENTI, NOI NON TORNIAMO PERCHÈ…: Oscar Bianchi, compositore di musica classica contemporanea, 34 anni, Stati Uniti/Germania: “Non torno, semplicemente poiché non potrei mai esistere nel mio Paese in quanto compositore. Non esistono più investimenti (pubblici e privati), né di conseguenza un mercato che conceda alla mia ‘categoria’ il diritto di esistere, professionalmente e socialmente. Gli italiani come me hanno bisogno di poter credere: l’Italia che ho conosciuto nell’ambiente accademico e professionale ha corrotto fino al decesso quella fede nell’uomo, nelle sue risorse e nella sua capacità di realizzazione, che renderebbe un cittadino come me fiero del proprio Paese e dei valori che esso veicola”. Luca Candeago, ricercatore, 28 anni, Spagna: “Non tornerò in Italia, non per adesso almeno. Questi anni di soggiorno “obbligato” all’estero sono stati decisivi per comprendere che il valore della meritocrazia non è più rispettato in un Paese come il nostro. Un Paese che rimane tuttora un immenso serbatoio di cervelli, ma che investe davvero poco sui giovani e sulle loro potenzialità”. Damiano Migliori, ingegnere, 31 anni, Francia: “Non torno perché – nonostante senta l’Italia come il mio Paese – lo vedo in declino. E se guardo al futuro, non vedo le leve per migliorare le cose. Non riesco ad immaginarmi come attore della mia crescita, nonché del miglioramento del mio Paese”. Michele Lanzinger, manager e imprenditore, 35 anni, Spagna: “Non torno, perché non vedo reali opportunità per giovani intraprendenti e volonterosi in questa Italia che di giorno in giorno si allontana da quell’ideale di eccellenza che fino a qualche decennio fa ci aveva portato ad essere una nazione invidiata e rispettata in Europa e nel mondo. Oggi non rappresentiamo più un esempio da seguire, se non in pochi settori di nicchia, in cui stiamo vivendo di rendita”. Giuliano Gasparini, consulente, 33 anni, Spagna: “Non torno perché, dopo anni di vita all’estero, mi rendo conto che il sistema-Italia non mi si addice più. Non riesco a capire perché le motivazioni alla base di decisioni importanti non vengano prese rispettando parametri meritocratici, ma piuttosto parametri che rispondono a interessi specifici. Tutto ciò mi genera conflitti e frustrazioni interne, che non sono più disposto ad accettare”. Francesco Dellisanti, consulente, 33 anni, Gran Bretagna: “Non torno, perché a Londra il mio dottorato è valorizzato in azienda, e non solo in università. Il mercato del lavoro è più flessibile che in Italia, per cui qui ho più opportunità. Infine, perché i progetti di consulenza aziendale su cui lavoro sono di respiro internazionale, nonché molto formativi”. Dario Pompili, professore universitario, 32 anni, Stati Uniti: “Sono andato via dall’Italia per l’incertezza del futuro nel campo della ricerca, e per la bassissima correlazione fra impegno e premio, dovuta a logiche non meritocratiche e spesso clientelari”. Paolo Besana, ricercatore, 35 anni, Gran Bretagna: “Non torno, perché dopo cinque anni in Scozia mi trovo bene e mi sento a casa – cosa che non riesco più a sentire in Italia. Non è solo un problema di fondi per la ricerca… ma di mentalità. In Gran Bretagna so che quello che mi spetta (dalla posizione in coda all’ufficio postale fino ai riconoscimenti in università) lo ottengo senza dover combattere continuamente con chi cerca di passarmi avanti”. Cristina Cammarano, professoressa universitaria, 36 anni, Stati Uniti: “Non torno perché, come insegnante di filosofia al Liceo, non potevo neanche pagare l’affitto. Se pure avessi conseguito un dottorato in Italia, data l’impossibilità di trovare un lavoro adeguato al mio titolo di studio, avrei insegnato alle scuole superiori, oppure avrei agonizzato per anni, in attesa della morte del mio “barone”, per poterne prendere il posto”. Teresa Fiore, docente universitaria, 39 anni, Stati Uniti: “Non torno perché, dopo tanti anni, la mia vita è qui, e il mio percorso professionale è legato al contesto americano. Ma – a differenza di tanti miei colleghi inglesi o francesi (per esempio) – questa non è solo una scelta personale. Mentre loro possono prendere in considerazione l’ipotesi di un ritorno (e quindi una reintegrazione nel sistema, con pieno riconoscimento dell’esperienza accumulata), noi italiani non percepiamo di potere contare sul sistema che ci ha formati per anni. Un sistema che non sembra interessato a instaurare o a riprendere una collaborazione di tipo professionale, in maniera sistematica o garantita”. Patrizia Iacino, designer, 38 anni, Stati Uniti: “Non torno in Italia, perché non esistono possibilità e strutture per poter sviluppare concretamente il mio lavoro. L’Italia è un Paese fermo nei suoi squilibri, in cui l’interesse principale non è investire sul futuro, ma lasciare intatti i privilegi di alcune categorie sociali”. Paola Oliveri, Senior Lecturer (Professore), 40 anni, Gran Bretagna: “Non torno, perché la situazione della ricerca italiana è assolutamente disastrosa. Le risorse economiche dedicate sono praticamente inesistenti, e i pochi finanziamenti accessibili non sono distribuiti in base a criteri meritocratici, ma sulla base di politiche provinciali, miopi e clientelari. Tutto ciò rende impossibile esercitare in modo professionale e competitivo – a livello internazionale – gli studi che svolgo nel campo della biologia dello sviluppo. Per di più, questa gestione personalistica del denaro pubblico porta ad una grande perdita economica – e soprattutto culturale – per lo Stato Italiano. Due settori ne sono particolarmente penalizzati: la ricerca di base ed i giovani”. Simonetta Camandola, ricercatrice, 41 anni, Stati Uniti. “Non torno perché in dieci anni – da quando ho lasciato l’Italia – non è cambiato nulla. Intelligenza, entusiasmo e amore per la Scienza non contano niente”. Marco Fantini, economista, 44 anni, Belgio: “Non torno, perché l’Italia è un Paese rivolto al passato. Un Paese dove ciò che è stato è sempre più importante di ciò che sarà. Dove i ‘diritti acquisiti’… sono acquisiti sempre dalle stesse persone”. Veronica Manfredi, funzionaria della Commissione Europea, 39 anni, Belgio: “Non torno, perché ho trovato a Bruxelles e nel mio lavoro quotidiano per l’Europa un senso profondo ai miei studi a carattere internazionale, e perché so che mi sarebbe ancora difficile – in Italia – valorizzarli in maniera adeguata. O, quantomeno, in grossa parte del territorio nazionale”. Elisabetta Montaguti, funzionaria presso un’importante istituzione internazionale, 44 anni, Belgio: “Non torno perché, nelle circostanze descritte sopra, e di fronte alla cultura dell’illegalità da troppi condivisa o tollerata nel mio Paese, non avrei la possibilità di fare qualcosa di utile, o di fare la differenza con le mie energie intellettuali ed operative, né tanto meno di riceverne riconoscimento”. (continua 1)