La presunta trattativa fra lo Stato e la mafia avrebbe avuto il suo epilogo nella nascita di Forza Italia. Alla vigilia delle elezioni, nel 93, i boss avrebbero ricevuto delle assicurazioni da parte di esponenti di questo partito. La lettera di Don Vito Ciancimino, posseduta dal figlio Massimo,

 non prova affatto questo legame, ma lascia pensare che ci sia stato un canale diretto fra l’entourage di Silvio Berlusconi e l’ex sindaco mafioso di Palermo, che si preoccupava delle minacce di Bernardo Provenzano rivolte al Premier. Il figlio maggiore dell’attuale presidente del Consiglio sarebbe stato in pericolo ed avrebbe potuto essere ucciso se Berlusconi non avesse “consegnato” un canale Tv ai rappresentanti dei boss. Business, dunque. Nient’altro che business. Abbiamo dunque due piste convergenti, stando alle rivelazioni di Massimo Ciancimino, di Gaspare Spatuzza e altri (Leonardo Messina e Giovanni Brusca). Una conduce all’alleanza mafia-politica con la nascita del nuovo partito, l’altra al business proposto, con le minacce dai boss. Le due piste propongono le due “anime” dei corleonesi orfani di Totò Riina, i Graviano “emigrati” a Milano e Provenzano, nascosto nel suo covo di campagna in Sicilia. Entrambi, tuttavia, fanno supporre una trattativa condotta con metodi diversi. Provenzano mirerebbe ad entrare in affari con il tycoon italiano, gli altri seguono obiettivi “istituzionali”, l’alleanza con i rappresentanti del governo. Non c’è a ben vedere una diversità d’interesse, perché viene marcata la stessa area politica ed imprenditoriale. Seguendo la logica di Massimo Ciancimino e gli altri collaboratori, si giunge ad una specie di joint venture, un legame politico e d’affari, costruito su due perni: l’ingresso nel network di Berlusconi, e il comparaggio politico-istituzionale. Questo sarebbe lo sbocco alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, che – stando sempre a Massimo Ciancimino - sarebbe stata strappata a Don Vito per passare nelle mani di Marcello dell’Utri.

Tutto si tiene, dunque?

Nemmeno per idea. Questo è quello che vogliono fare intendere i collaboratori di giustizia, e soprattutto Massimo Ciancimino, dal quale sono arrivate le bordate più robuste. Il Pdl ed il governo hanno reagito come un sol uomo, da Bondi a Gasparri, Cicchitto, Ghedini ed allo stesso Ministro Guardasigilli, Angelino Alfano, il quale ha smentito con grande determinazione ogni collegamento fra Forza Italia, partito al quale aderì subito lasciando la DC, e Cosa nostra. La strategia processuale dei PM sembra tuttavia piuttosto chiara. Essa si delinea attraverso il processo Mori e Dell’Utri, che lambiscono il ruolo del presidente del Consiglio. Berlusconi non è indagato né imputato, ed i processi non lo riguardano, ma di fatto di lui si parla ed a lui ed al suo partito si vuole arrivare. L’affondo di Ciancimino jr non lascia dubbi di sorta. Massimo è arrivato lontano, ha tagliato i ponti dietro. Sul suo capo pendono annunci di querele da parte di Dell’Utri e smentite da parte dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini. E’ come se avesse scoperchiato una pentola bollente. C’è il rischio che qualcuno si faccia male, a cominciare dallo stesso Ciancimino jr, che deve documentare quanto ha riferito nelle udienze del processo Mori. Le rivelazioni di questi giorni, comunque, si allacciano a quelle fatte alcuni anni or sono da due noti boss, come Brusca e Messina. “Cosa nostra voleva farsi Stato”, ha riferito a Luciano Violante Leonardo Messina in Commissione nazionale antimafia. “Avevamo messo in piedi Sicilia libera”, riferì Giovanni Brusca a proposito di un incarico che Cosa nostra diede ad un parlamentare regionale. Le due dichiarazioni dimostrerebbero la volontà da parte di Cosa nostra di uscire da un’alleanza, rivelatasi deludente, con i partiti della Prima Repubblica – al punto da decidere sanzioni contro i politici più influenti (Lima) – per prendere in mano direttamente le redini.

Come, con quali uomini?

Domande inevase, almeno finora. Il teorema persuade, ma resta un teorema. Niente prova che le cose siano andate così. I collaboratori di giustizia con le loro rivelazioni costruiscono ipotesi investigative, null’altro. Hanno ragione pertanto Ghedini, Bondi e gli altri a reagire con grande foga alle parole di Ciancimino jr. Irrituale, invece, l’intervento di Alfano, ma giusto perché si tratta del ministro della Giustizia; non spetterebbe certo a lui confutare le tesi di un teste riferite nel corso di un’udienza. Ma è una questione di stile. Il bisogno di smentire così gravi illazioni rende comprensibile la reazione. E c'è anche chi crede che Massimo Ciancimino stia costruendo un polverone per screditare i pentiti, come l'ex senatore Arlacchi. Dello stesso parere, più o meno, in una intervista rilasciata alle nostre testate, l'avvocato Alfredo Galasso, per il quale Ciancimino avrebbe messo troppa carne al fuoco e risulterebbe difficilmente credibile. (fonte: www.siciliainformazioni.it)