In quei giorni faceva il suo show nell’aula bunker dell’Ucciardone Tommaso Buscetta, il Boss del due mondi, colui che decise di sfidare spavaldamente i suoi ex sodali appartenuti alla “piovra”. Tutto era cominciato nel famoso Blitz di San Michele la mattina del 29 Settembre 1984, quando, grazie alle confessioni di Don Masino e Salvatore Totuccio Contorno vennero spiccati, per ordine del Pool, 366 tra mandati di cattura e ordini di custodia cautelare emessi dai 5 magistrati dell’antimafia, seguiti poi da altri 127 ordini e 56 arresti in tutta Italia. Terminate le indagini preliminari durate quasi un anno, il Giudice capo Antonino Caponnetto emana l’8 novembre 1985 l’ordinanza-sentenza chiamata “Abbate Giovanni +706”. Parte così il mostruoso “circo” chiamato Maxi processo che per descriverlo ci vorrebbero centinaia di cartelle dattiloscritte e non una sola pubblicazione ma un’intera collana editoriale. Quello che rende meglio l’idea sono i numeri, le impressionati cifre che parlano da sole. Gli addetti ai lavori, compreso Pietro Grasso (attuale Presidente del Senato), lo hanno definito un vero e proprio monumento giuridico. Dei 706 iniziali 475 vengono rinviati a giudizio e 231 prosciolti. 8000 pagine, 349 udienze, 200 avvocati, 600 giornalisti, 900 testimonianze, 1300 interrogatori, 19 ergastoli, 2665 gli anni di reclusione, 11 miliardi di vecchie lire di pene pecuniarie. Per non parlare dell’imponente location voluta e creata ad hoc per l’occasione. Nei primi istanti, per motivi di sicurezza, si pensa di svolgerlo fuori città ma dopo attente riflessioni si opta per un’estensione adiacente al carcere dell’Ucciardone, ideale per evitare pericolosi trasferimenti in strada di centinaia di “mammasantissima”. Nasce così in pochi mesi e in tempi da record l’aula bunker soprannominata (per il suo color verde cupo) l’Astronave, costata ben 36 miliardi di lire, di forma ottagonale a prova di missile e con un sistema di archiviazione telematica dei più avveniristici dell’epoca. Non si trova un presidente della Corte d’Assise ma alla fine accetta coraggiosamente Alfonso Giordano proveniente dalla sezione civile, affiancato da Antonio Prestipino e dai due giudici a latere Pietro Grasso e Claudio Dell’acqua, mentre Giuseppe Ayala e Domenico Signorino siedono sul tavolo dei pm accusatori. C’è anche una giuria popolare (composta da 6 elementi) rappresentati da Mario Lombardo. Tutto è pronto, l’Italia osserva attonita dai media il tanto atteso avvio mentre la cittadinanza di Palermo è spaccata in due: convinti sostenitori del Pool contro scettici simpatizzanti delle cosche mafiose. Le proteste non mancano. Il maxi processo è un fatto storico, unico per la giustizia italiana perché per la prima volta va ad intaccare il consenso, l’omertà, quel tipo di sudditanza psicologica che era stata sin li la vera autorità degli uomini d’onore. Si parla di Cosa nostra, un termine prima di allora considerato tabù. E’ l’epocale cambio di rapporto di forza tra Stato e Mafia. Sfilano persino i colletti bianchi come testimoni, sono imprenditori e uomini d’affari della Palermo bene che devono chiarire la loro vicinanza a Michele Greco di Favarella ma il fatto più unico che raro è la presenza (in quel contesto) - nel mese di novembre - del Sindaco Leoluca Orlando, in veste di primo cittadino del capoluogo costituitosi Parte civile, mai accaduto prima. Le “belve” si accomodano in gabbia e, con fare da super Padrini, si organizzano come se fossero seduti in Commissione; attaccati alle sbarre i capi famiglia e poco dietro i rispettosi sudditi. Ma chi è stato l’artefice di tutto? Chi ha messo in condizione Falcone di compiere una così importate svolta storica per l’antimafia? E chi ha rivelato al mondo intero la complessa struttura interna di Cosa nostra? E’ Tommaso Buscetta, un carismatico personaggio che per molti aspetti è da best seller ed eventualmente da grande schermo. Killer spietato che conosce tutti, uomo d’onore dei più rispettati, punto di contatto tra il vecchio e il nuovo continente e infine la redenzione e l’attacco diretto ai suoi ex partner di un tempo. Il precursore del fenomeno del “pentitismo” e/o collaborazionismo con le istituzioni. Sulla scia da lui tracciata si aggiungeranno in seguito anche Gaspare Mutolo, Totuccio Contorno, Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e molti altri.
A parlare di queste cose, in tempi non sospetti, ci avevano provato Joe Valachi, soldato dei “genovese” che depose negli Stati Uniti davanti alla commissione McClellann alla metà degli anni Sessanta e Leonardo Vitale, l’italiano di Altarello nel marzo del 1973 poi eliminato brutalmente a suon di lupara. Chi in realtà ci riesce realmente e segna in maniera definitiva la spaccatura all’interno del sistema mafioso è il più importante di tutti; l’ex capo del clan di Porta Nuova, il Boss che collegava la Sicilia al vecchio continente tramite Gaetano Badalamenti.
Buscetta è un fiume in piena, un Virgilio che traghetta il suo Dante di nome Falcone nei gironi dell’inferno. Parla di famiglie, di mandamenti e della Commissione. Fa nomi precisi, date certe e ricostruisce fatti concreti. È il grande accusatore dei pezzi da novanta, rivela ufficialmente i segreti di un’associazione (come la chiama lui) ben ramificata nel territorio a tal punto di diventare essa stessa il vero potere in una delle terre più affascinanti e assolate dello Stivale. Le sue testimonianze risulteranno determinanti per i numerosi ergastoli inflitti agli affiliati alle cosche. “Masino” percepisce un cambiamento, lo sente e lo vive all’interno del clan ed è proprio per questo che prende la decisione di defezionare. Non si identifica più in quella mattanza che i nuovi capi della Cupola hanno messo in atto da anni. Si ammazzano donne e bambini, cosa che prima l’organizzazione non solo non permetteva, ma neppure tollerava. A quel gioco al massacro voluto dai “Viddani” di Corleone che coinvolge inesorabilmente anche gran parte dei suoi parenti lui non ci sta e decide di inchiodarli tutti. La svolta avviene sotto gli occhi increduli dei presenti quando fa il suo ingresso (i primi di Aprile) nell’aula bunker accompagnato dal vice questore Manganiello (poi divenuto Capo della Polizia) e, in un silenzio surreale, rompe quell’omertà che fino ad allora era stata “sacrale” per il potere mafioso. Il duro confronto-scontro verbale con Pippo Calò (ritenuto il cassiere) passa alla storia e rappresenta il segnale di “strappo” e rottura inconfutabile con i vertici siculo-americani e con i latitanti in contumacia, le famiglie di Riina, Bagarella e Provenzano.
Buscetta è durissimo: “Io non condivido più quella struttura a cui appartenevo…e tu…(riferendosi a Calo’) caro Pippo hai calpestato chi hai accarezzato. Vergognati, ti dovresti solo vergognare!”
Parole fortissime indirizzate al capo-cosca che lasciano tutti esterrefatti, Corte compresa. Quando poi a parlare in aula è il turno di Michele Greco di Favarella e Luciano Leggio (Liggio) la primula rossa di Corleone ex capo di Don Toto’, il quale per smentire il pentito si inventa anche l’ipotetico ostacolo al Golpe Borghese, ormai non c’è più nulla da fare.
Buscetta con quell’affronto e affondo impietoso nei confronti di un Calo’ ridotto al balbettio aveva spezzato il meccanismo, distrutto ogni minima speranza da parte dei legali degli uomini d’onore e, probabilmente, convinto anche le due Corti (Assise e Popolare) con la sua vulcanica confessione. Vani anche i tentativi di convincere i giurati da parte di un Ignazio Salvo elegantissimo in giacca e cravatta ma ormai alla “frutta”, il notabile conosciuto come il Vicere’, l’esattore, cugino di Nino, l’anello di congiunzione tra il sistema mafioso e i politici locali corrotti. Il prezioso collaborato, ormai senza più un’identità per l’effetto del programma protezione testimoni e perennemente nascosto in varie parti del pianeta, paga caro le pesantissime accuse ai suoi vecchi colleghi di business e malaffare. Riina era stato chiaro; “sterminategli tutta la famiglia, fino al ventesimo grado di parentela”. Quelle parole confessate prima a Falcone e poi nell’Astronave portano alla tomba gran parte dei suoi cari; 11, infatti, le vittime a lui collegate tra le quali il fratello Vincenzo, il cognato, tre nipoti, i figli Benedetto e Antonio e molti altri. Il maxi processo si conclude con la richiesta di Ayala e Signorino del massimo delle pene e, dopo due settimane di requisitorie, 36 giorni di camera di consiglio, il 16 dicembre ’87 arriva il tanto agognato verdetto. Alfonso Giordano impiega ore per leggerlo. Le condanne sono esemplari ma - 5 anni dopo - in Cassazione, la vendetta atroce e sanguinaria dei Padrini in libertà non stenterà ad arrivare e sarà senza precedenti. Ma questa (e molto ancora) è tutta un’altra pagina di nostra storia che meriterebbe ben altri approfondimenti. (Mirko Crocoli)