(SA) - Nel 26° anniversario dell’uccisione del giudice Paolo Borsellino e di cinque poliziotti della sua scorta, la mente, come ad ogni anniversario, automaticamente corre a quel tragico pomeriggio. Eravamo seduti nella sala bar dell’allora scuola sindacale di Passo Pomo a Santa Venerina, dove per conto dell’USEF si organizzavano le colonie per figli di emigrati.
Si parlava del più e del meno, si discuteva di programmi di animazione da realizzare con i piccoli ospiti all’epoca molto numerosi e provenienti da diverse parti del mondo, dove i loro genitori erano stati spinti dall’emigrazione in cerca di lavoro. In maniera distratta si seguivano le immagini che si susseguivano sullo schermo di un televisore, quando la nostra attenzione venne attratta dalla musica dell’edizione straordinaria del telegiornale. Aguzzammo l’attenzione e dal televisore piovve la notizie che deflagrò nella sala come una bomba: a Palermo in via D’Amelio, con un auto bomba era stato ucciso il giudice Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Lo sgomento si impossessò subito di noi, alcuni si misero a piangere, la memoria ci riportò indietro di circa due mesi al quel tragico 23 maggio del 1992, quando un altro magistrato era stato ucciso in un agguato assieme alla moglie Francesca Morvillo ed agli agenti della scorta. Mi riferisco a Giovanni Falcone, falciato dalla dinamite in autostrada nelle vicinanze di Capaci. Lo Stato perdeva i suoi uomini migliori e la lunga scia di morti per mano della mafia continuava ad insanguinare le strade della Sicilia. Un guerra senza quartiere quella che la mafia aveva da tempo dichiarato allo Stato ed ai suoi uomini, per vendicarsi del max processo che era arrivato a sentenza infliggendo 342 condanne tra cui 19 ergastoli. Uno Stato che non seppe difendere i suoi uomini, che vennero falciati dal piombo mafioso. Uno Stato che mentre alla luce del sole si manifestava con il coraggio e l’abnegazione di uomini come Falcone, Borsellino, Cassarà, Livatino, Chinnici, Terranova Mattarella, La Torre e tanti altri, morti sull’altare della legalità e della fedeltà alla repubblica, dall’altro lato, c’era chi trattava con i mafiosi per giungere ad un accordo Stato Mafia del quale solo a sprazzi si sono avute notizie e certezze. Diversi i processi fatti per cercare di arrivare alla verità, come parecchi furono i depistaggi per nascondere le trattativa segrete che uomini dello Stato e della politica intrecciavano con i capi mafiosi finiti all’ergastolo. Solo dopo 26 anni dopo una serie di processi di condanne e di annullamento o rimodulazione delle stesse, la Corte d’Assise di Palermo nelle motivazione della sentenza emessa ad aprile di quest’anno, afferma che la trattativa stato mafia accelerò la morte di Borsellino, in quanto contrario alla trattativa. La sua morte ordinata da Riina, doveva avvenire in maniera eclatante per lanciare un segnale forte allo Stato e per accelerare la trattativa, tolto di mezzo il maggiore oppositore. Ebbero a dire Lirio Abbate e Peter Gomez nel loro libro “I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano, da Corleone al Parlamento, p. 36 “ ripigliando una frase di Borsellino: « Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. » In questo caso con un atto di guerra si pensava di accelerare i tempi per raggiungere un accordo. Così infatti recita la recente sentenza della Corte: l’invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina, dopo la strage di Capaci, sarebbe l’elemento di novità che indusse Cosa Nostra ad accelerare i tempi dell’eliminazione di Paolo Borsellino. Lo sostengono i giudici della corte d’assise di Palermo che hanno depositato le motivazioni delle condanne a Mori, De Donno, Subranni, Dell’Utri e dell’assoluzione per Mancino, il 20 aprile scorso, nel processo sulla cosidetta trattativa Stato-mafia. «Ove non si volesse pervenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla `trattativa´ conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, - scrivono - in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo». Quanto tempo per arrivare alla verità! Ma siamo finalmente alla verità pura e semplice o la vicenda ci riserba ancora altre sorprese? Noi una verità la sappiamo e la vogliamo ripetere senza stancarci: “da tempo nelle coscienze della gente, dei giovani che ogni anno arrivano in Sicilia con la nave della legalità, cresce un nuova consapevolezza dello Stato. Di uno Stato che deve difende i propri servitori, che non deve lasciarli soli, che deve potenziare le istituzioni preposte alla sicurezza delle persone ed al rispetto della legalità” L’esempio ed il sacrificio di persone come Falcone, Borsellino, Terranova, Chinnmici, La Torre, Piersanti Mattarella e tanti altri ed il sacrificio di tanti servitori dello Stato colpevoli solo di fare da scorta a giudici e politici, non può e non deve essere vanificato. La lotta continua e la legalità deve essere il faro che ci guida e ci aiuta a rendere migliore e più vivibile questa società figlia del nostro tempo. Salvatore Augello