e del latifondo, fondatore, alla fine degli anni ’60, della Filef (la Federazione Italiana dei Lavoratori Emigranti e delle loro Famiglie), assieme a Carlo Levi, Renato Guttuso ed altri sindacalisti, politici e intellettuali sensibili alle questioni dell’emigrazione italiana – la Filef ha realizzato un libro con una selezione dei suoi scritti ed interventi datati tra il 1969 e il 1973, recuperati dagli archivi della federazione.
Il testo, “Che cos’è l’emigrazione: Scritti di Paolo Cinanni”, intende riproporre all’attenzione dell’opinione pubblica e degli operatori sociali, culturali e politici, l’originale e rigorosa interpretazione che Cinanni, grande intellettuale del ‘900, allievo di Cesare Pavese, dà dei fenomeni migratori, a partire da quello italiano.
Autore di famosi saggi, tra cui “Emigrazione e Imperialismo” e “Emigrazione e Unità Operaia”, Cinanni propone una lettura delle migrazioni interne ed internazionali attraverso alcune fondamentali chiavi di lettura, tra le quali: sviluppo/sottosviluppo, relazioni tra centri capitalistici/periferie, da cui i flussi migratori sono determinati e che, allo stesso tempo, riproducono e amplificano in tempi storici molto lunghi gli squilibri da cui hanno origine.
In un momento in cui la questione migratoria dal sud del mondo è tornata al centro dell’attenzione mondiale ed in cui si assiste anche alla ripartenza di flussi emigratori di centinaia di migliaia di italiani verso l’estero, l’opera di Cinanni offre spunti di riflessione fondamentali sia per la questione migratoria in sè, sia per la posizione dell’Italia negli scenari europei e globali.
La presentazione si svolge nell’ambito del Programma di iniziative del CQIE (Comitato per le questioni degli italiani all’estero del Senato):
“MIGRAZIONI: DA MARCINELLE A LAMPEDUSA. CAPIRE LA NOSTRA STORIA PER GUARDARE AL FUTURO” che si è svolta dal 23 novembre al 2 dicembre 2016.
. Di seguito l’introduzione al volume di Rodolfo Ricci (coordinatore nazionale della Filef)
Introduzione al volume Rileggere Cinanni
Ricorrono i 100 anni dalla nascita di Paolo Cinanni (Gerace, 25 gennaio 1916 – Roma, 18 aprile 1988); calabrese, emigrato e figlio di migranti, combattente partigiano, militante comunista, dirigente delle lotte per la terra nel dopoguerra; sempre a fianco dei contadini meridionali anche nella loro forzata trasformazione in migranti nel corso di tutto il ‘900 e, anche per tutto ciò, fondatore, insieme a Carlo Levi, della Filef.
Nelle loro intenzioni la federazione doveva tutelarne i diritti e contribuire a formare una coscienza che – attraversando un lungo tempo storico, inframezzato dagli esiti peraltro negativi dell’unità d’Italia con l’accentuazione, anziché la riduzione, degli squilibri tra nord e sud – recuperasse il protagonismo delle masse meridionali nella loro nuova funzione di operai emigrati delle grandi fabbriche del nord Italia e dei paesi nord europei e transoceanici, in una prospettiva di riscatto e unità di tutti i lavoratori.
Ma Paolo Cinanni è uomo di azione e anche grande intellettuale che si inserisce in modo originale nella tradizione meridionalista ed è anche una figura problematica all’interno della tradizione comunista: allievo di Cesare Pavese, si richiama a Gramsci ed applica le sue analisi delle identità nazionali anche ad aree territoriali sub-nazionali, come il Meridione italiano, rivendicandone, nel dopoguerra, la specificità e la necessità di un approccio non generico alla soluzione dei suoi problemi secolari; un approccio che si fondi sul rilancio della produzione agricola attraverso la sconfitta del latifondo e, quindi, sulla fine dei flussi migratori (qualcosa di molto, molto simile, abbiamo conosciuto, negli anni ’90 e 2000, nell’America Latina di Via Campesina, organizzazione contadina partecipata da migliaia di nipoti e bisnipoti di nostri emigrati); ma la sua visione non acquisisce il consenso necessario: il mancato successo della riforma agraria, la crescita dell’industrializzazione del triangolo industriale – che si avvale del trasferimento al nord di milioni di giovani meridionali -, implicano un progressivo calo di attenzione verso autonome ed endogene prospettive di sviluppo del meridione che, via via, vengono lasciate cadere.
Le sue idee vengono emarginate, ritenute per certi versi sconfitte dalla implacabile storia; dopo aver inventato gli scioperi alla rovescia con l’occupazione e la lavorazione immediata delle terre incolte (pratica adottata decenni più tardi nella realizzazione degli Asentamentos dei Senza Terra in lotta contro il latifondo brasiliano) e aver diretto il movimento contadino al sud, viene chiamato a Roma in una di quelle classiche operazioni di promozione “demansionata”; l’approdo alla Filef è dunque, in un certo senso, l’esito di una sconfitta interna al PCI che tuttavia Cinanni coglie come un’opportunità: quella di riprendere in mano la vicenda che ha segnato due decenni di impegno nella sua Calabria – dopo essere cresciuto ed essersi formato nella Torino degli anni tra il ‘26 e il ’45 -, riprendendo i fili del destino del mondo contadino in un momento in cui esso torna alla ribalta, questa volta, come mondo dell’emigrazione che reclama un suo protagonismo nello scenario nazionale e internazionale, cosa che in Italia accadrà in modo decisivo a partire dal 1966 per sfociare nell’autunno caldo del ’69.
E’ anche un’opportunità per fare i conti, da intellettuale, con le prospettive, presenti anche a sinistra, che vedevano l’emigrazione come un fenomeno ineluttabile che non poteva essere contrastato; e la trasformazione dei contadini del sud in operai di altri territori e per altri paesi, come un dato storico del capitalismo del dopoguerra che magari implicava un’accentuazione della battaglia politica essenzialmente sul versante dell’organizzazione operaia nel centro-nord; cosa che avrebbe dovuto trascinare l’intero paese (e quindi anche il meridione) verso la modernizzazione.
Per Cinanni, invece, questa scelta implicava conseguenze estremamente negative per l’intero paese e per il sud in particolare (e, da buon ecologo e attento sociologo, ne sottolineava anche il rischio sul piano eco-ambientale per i territori di partenza come per le grandi concentrazioni urbane metropolitane del nord afflitte da polluzioni e inquinamento); ciò era corroborato dagli esiti dei 100 anni di storia che già allora ci separavano dell’unità: il sud si era svenato cedendo “gratuitamente” al mondo milioni di emigrati e ciò che era rimasto, confermato anche da diverse successive inchieste parlamentari, era solo il sottosviluppo e il degrado.
Negli anni della Filef, quindi Cinanni riassume le sue tesi in modo organico e rigoroso in due famosi libri (Emigrazione e imperialismo-1968 ed Emigrazione e unità operaia-1974) che presenteranno per la prima volta una lettura scientifica delle cause e degli effetti delle migrazioni sia per i paesi di origine che per quelli di accoglienza.
I risultati di questo lavoro paiono ancora oggi, ineccepibili e sgombrano il campo, almeno da questo punto di vista, dalle letture paternalistiche o auto-assolutorie di buona parte della letteratura sull’emigrazione italiana fino a quel periodo.
In questo libro presentiamo una selezione di interventi di Cinanni tratti da “Emigrazione verso la crisi”, un volume collettaneo che ripercorre i primi 8 anni di vita della Filef (1967-1975) e fortemente improntati dalla sua analisi sui fenomeni migratori in generale, a partire da ciò che l’Italia aveva sperimentato fin dalla sua unità e che lo stesso Cinanni aveva conosciuto anche in prima persona.
A questa rigorosa analisi economica e politica, coerentemente marxista, fanno riferimento molti dei documenti e degli esiti congressuali della Filef nel suo primo decennio di vita; molti interventi degli altri fondatori della Filef, a partire da Carlo Levi, li fanno propri e li mutuano pur all’interno di linguaggi e approcci parzialmente differenziati, sia per la loro specifica formazione, sia per le diversificate esperienze di cui ognuno di essi è portatore.
Rappresentano anche il quadro di riferimento e di formazione politico-culturale per molti dirigenti dell’emigrazione all’estero, costituendo una base per quel processo che, secondo l’auspicio di Carlo Levi, doveva portare l’emigrazione italiana a diventare protagonista e attore all’interno del più ampio movimento dei lavoratori, una volta cosciente della propria storia e del proprio ruolo. Costituiscono anche le basi del famoso Libro Bianco sulla condizione degli emigrati e della successiva proposta di Statuto dei Diritti dei lavoratori migranti che la Filef presentò alla Commissione Europea nel 1973.
La lettura dell’emigrazione di Paolo Cinanni acquisì peraltro vasti riconoscimenti in ambito accademico e intellettuale non solo in Italia, come dimostrano le traduzioni sia di “Emigrazione e Imperialismo”- (1967) che di “Emigrazione e unità operaia”- (1974), libri che diventano, in quegli anni, dei punti di riferimento fondamentali nel dibattito intorno alle migrazioni e per coloro che di esse si occupano attivamente.
Gli interventi qui riproposti e che Cinanni pubblicò sul mensile della Filef “Emigrazione”, costituiscono una sintesi non strutturata, ma efficace, delle idee presenti già nei libri citati e certamente hanno una funzione più divulgativa, organizzativa e di orientamento.
Stupisce – e per certi versi inquieta – nel rileggerli, l’attualità del suo approccio in un momento in cui la questione migratoria è tornata di estrema attualità, non solo mediatica, nelle sue cause ed impatto anche geopolitico e nei suoi effetti all’interno dei paesi di arrivo, in grado di determinarne e spesso mutarne il quadro politico, mentre continuano purtroppo a restare del tutto sottovalutati o ignorati gli effetti sui paesi di partenza.
Le “narrazioni sul tema” che oggi abbiamo di fronte sono infatti sapientemente orientate a far percepire le grandi migrazioni come un fattore naturale ed epocale, a collocarle all’interno della coppia, apparentemente alternativa, di “accoglienza/integrazione” vs “rifiuto/xenofobia”, senza che vi sia – o emerga – un’ adeguata comprensione del loro carattere strutturale (sia per quelle extracomunitarie, sia per quelle interne al quadro nazionale e continentale), in un ambito sistemico caratterizzato dalla compresenza di sviluppo e sottosviluppo (o stagnazione), da aggressioni neocoloniali e neoimperialistiche e, allo stesso tempo, rimanendo all’ Europa, dalla crescita di differenziali produttivi tra paesi e dallo sfaldamento, ovunque, dello stato sociale, processi nati molto tempo fa e intensificatosi con l’ultima grande crisi economica.
A questo proposito è significativo verificare come i potenziali destini tra i paesi centro europei e quelli della costa mediterranea, alle prese con la dinamica degli “spread” e dei differenziali di produttività su cui è stata costruita la UE liberista, fossero, per Cinanni, assolutamente evidenti e prevedibili già quasi mezzo secolo fa, sulla base di una analisi dei flussi migratori interni alla CEE.
Paolo Cinanni, in queste pagine, ci parla infatti di “spread” storici di lungo periodo, che possono essere utili a comprendere molte delle dinamiche e delle involuzioni politiche con cui abbiamo a che fare.
Tra questi, appunto, l’emigrazione è quello principale, in grado di mostrare gli effetti del “libero mercato” su grandi territori e interi paesi, quando a regnare sono i liberi movimenti di capitali e di merci e, solo al loro seguito e in subordine, quelli delle persone; quando cioè non sono previste, anzi sapientemente evitate, politiche positive di “riaggiustamento strutturale” effettivo e di compensazione tra aree in surplus produttivo e aree in deficit, sia all’interno di singoli stati nazionali, sia all’interno di una comunità di stati come presume di essere la UE.
Colpisce quindi leggere, in diversi passaggi tra i tanti densi di significato storico e politico, come il collasso dell’edificio europeo fosse già prevedibile a fine anni ’60, sulla base di una semplice analisi dei flussi migratori (quindi anche demografici) che, da oltre un secolo e dalla fine della seconda guerra mondiale in particolare, avevano assunto una direzione precisa ed univoca.
All’interno di questi sommovimenti, l’Italia, il più grande paese di emigrazione dopo la Cina, aveva scelto da tempo e in forma strutturale, la via del deflusso – “concordato con i paesi più ricchi” – di manodopera e di popolazione per “diminuire la tensione sociale”, vale a dire per mantenere intatto il potere di classi dirigenti che avevano da conseguire un progetto di conservazione degli assetti sociali dati e/o incapaci di disegnare un paese diverso, anche autonomo – e “democraticamente sovrano” -, si potrebbe anche dire.
Il fatto che negli anni della crisi epocale (2008-2016), il flusso di emigrazione italiana (stavolta mediamente ben più qualificata della precedente) sia ripreso a tassi vicini a quelli degli anni ’60, conferma in modo inquietante le tesi di Paolo Cinanni. Come anche la riduzione drastica degli arrivi (da immigrazione extracomunitaria da lavoro) e invece l’esplodere parallelo di arrivi di profughi e asilanti per i quali il bel paese è ormai solo, ed essenzialmente, la prima sponda europea da raggiungere in un contesto internazionale caratterizzato da un caos crescente che mette sotto stress innanzitutto i paesi periferici e mediterranei della UE.
Ma se confrontiamo i progetti demografici di un paese, come la Germania, che ritiene di dover fare entrare sul suo territorio nei prossimi decenni almeno 10 milioni di lavoratori per contenere il suo deficit demografico (e riprendendo Cinanni, per valorizzare al meglio la sua ampia disponibilità di capitale, nonché per contenere, secondo prassi secolare, il costo del lavoro che le assicura da tempo un predominio sul versante dell’export) e il nostro paese che, al contrario, secondo l’ultimo rapporto Svimez 2015 rischia, negli stessi decenni, – ovvero da ora al 2050 -, di assistere alla desertificazione del meridione, con una riduzione potenziale di circa 5 milioni di residenti, ci ritroviamo in un contesto già conosciuto, quello di cui appunto parla questo nostro maestro; di una sorta di ritorno al futuro dopo soli tre decenni in cui pensavamo di essere ormai un paese di immigrazione, ammesso, quindi, nel club dei paesi ricchi del nord Europa.
Un altro importante ausilio che può dedursi da queste pagine è un contributo ad una corretta riflessione sulla questione del rapporto tra globale e nazionale (e tra nazionale e territoriale) e, per quanto riguarda lo scenario europeo, anche alle ipotesi di permanenza o di uscita dall’Euro o dalla UE, un dibattito che mostra una notevole confusione, sia sul piano analitico che su quello delle prospettive. Da questo punto di vista, il rigore di Paolo Cinanni può aiutarci a porre in termini più solidi la discussione, laddove, dalle sue pagine, sembrerebbe necessaria una rilettura della storia del nostro paese dall’unità in poi e non solo, come spesso accade negli ultimi tempi, limitatamente ai decenni che vanno dai ’70 ad oggi, caratterizzati dall’irruzione del neoliberismo.
Allo stesso modo è interessante l’indagine sulle grandi borghesie locali e sul loro tendere a trasformarsi in elites transnazionali e della rendita, fenomeno che nella storia sembrerebbe essere già accaduto più volte, soprattutto nelle aree e nei territori la cui competitività sistemica è decrescente. Poi, la questione dell’”unità operaia”, cioè di classe, che è il permanente richiamo di Cinanni, certamente una questione non semplice, anzi divenuta ben più ostica di quanto non lo fosse in quegli anni, anche per la sua necessaria traduzione ad un livello transnazionale e in un contesto in cui è stata già abbondantemente distrutta sul piano nazionale…
Infine, fa riflettere che, partendo da un fenomeno economico-sociale come l’emigrazione, emergano con semplicità ed evidenza, tutta una serie di questioni attualmente relegate al – o controllate dal – più astruso e inaccessibile dibattito economicistico; è questa una delle ragioni, forse, per cui si assiste allo stallo che abbiamo di fronte: perduta la memoria di un’accorta intelligenza sociale (e dunque politica) come emerge dalle pagine di Cinanni, ciò che regna è l’egemonia specialistica, spesso vana e di difficile trasmissione, anche nei suoi esiti migliori e meno controllati dall’egemonia main stream che pervade le leadership e, a cascata, le opinioni pubbliche mediatizzate, ovunque collocate.
Lo “straordinario Cinanni”, come pensavamo di intitolare questo breve libro, andrebbe quindi ripreso e di nuovo letto e diffuso, a partire dalle sue opere più importanti, ormai – forse non casualmente – introvabili. Buona lettura.
Rodolfo Ricci (Coordinatore nazionale della Filef)