Perché Pirandello arrivasse al successo si dovette aspettare il 1922, quando si dedicò totalmente al teatro. Lo scrittore siciliano aveva rinunciato a scrivere opere teatrali, quando l'amico Nino Martoglio gli chiese di mandare in scena nel suo Teatro Minimo presso il Teatro Metastasio di Roma alcuni suoi lavori: Lumie di Sicilia e l' Epilogo, un atto unico scritto nel 1892. Pirandello acconsentì e la rappresentazione il 9 dicembre del 1910 dei due atti unici ebbe un discreto successo. Tramite i buoni uffici del suo amico Martoglio anche Angelo Musco volle cimentarsi con il teatro pirandelliano: Pirandello tradusse per lui in siciliano Lumie di Sicilia, rappresentato con grande successo al Teatro Pacini di Catania il 1º luglio 1915. Cominciò da questa data la collaborazione con Musco che incominciò a guastarsi dopo qualche tempo per la diversità di opinioni sulla messa in scena di Musco della commedia Liolà nel novembre del 1916 al teatro Argentina di Roma: «Gravi dissensi» di cui Pirandello scriveva nel 1917 al figlio Stefano.
Dalla Grande Guerra al Nobel: il successo internazionale
La guerra fu un'esperienza dura per Pirandello; il figlio Stefano venne infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritornò in Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita. Durante la guerra, inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono al punto da rendere inevitabile il ricovero in manicomio (1919) dove rimase, come detto, sino alla morte. Dopo la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro frenetico, dedicandosi soprattutto al teatro. Nel 1925 fondò la Compagnia del Teatro d'Arte di Roma con due grandissimi interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri. Con questa compagnia cominciò a viaggiare per il mondo: le sue commedie vennero rappresentate anche nei teatri di Broadway. Nel giro di un decennio arrivò ad essere il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come testimonia il premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1934. Degno di nota fu lo stretto rapporto con la giovane Abba, sua musa ispiratrice, della quale Pirandello, secondo molto biografi e conoscenti, era innamorato in maniera, probabilmente, solo platonica.
Molte delle opere pirandelliane cominciavano intanto ad essere trasposte al cinema: Pirandello andava spesso ad assistere alla lavorazione dei film; andò anche negli Stati Uniti, dove famosi attori e attrici di Hollywood, come Greta Garbo, interpretavano i suoi soggetti. Nell'ultimo di questi viaggi (1935) andò a trovare, su invito, Albert Einstein a Princeton. In una conferenza stampa Pirandello difese con veemenza la politica estera del fascismo, con la guerra d'Etiopia, accusando i giornalisti statunitensi di ipocrisia, citando il colonialismo contro i nativi americani.
Pirandello e la politica: l'adesione al fascismo
Pirandello non aveva mai preso specifiche posizioni politiche, tranne l'ammirazione per il patriottismo garibaldino di famiglia, unica certezza in un'epoca di crisi. L'idea politica di fondo di Pirandello era legata principalmente a questo patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa nel 1915 sul Giornale di Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi mesi dallo scoppio della Grande Guerra durante la quale il figlio Stefano fu fatto prigioniero dagli austriaci e rinchiuso, per la maggior parte della prigionia, nel campo di concentramento di Pian di Boemia, presso Mauthausen. Pirandello non riuscì a far liberare il figlio malato neppure con l'intervento del papa Benedetto XV.
Nella sua vita condivise alcune delle idee dei giovani Fasci siciliani e del socialismo; ne I vecchi e i giovani si nota come l'idea politica di Pirandello era stata oscurata dalla riflessione "umoristica". Per Pirandello, i siciliani avevano subìto le peggiori ingiustizie dai vari governi italiani: è questa l'unica idea forte che ci presenta.
Nella prima guerra mondiale, come detto, fu un interventista, anche se avrebbe preferito che il figlio non partecipasse in prima linea alla guerra, cosa che invece Stefano farà, arruolandosi volontario immediatamente e rimanendo ferito e prigioniero degli austriaci, situazione che sarà estremamente angosciosa per lo scrittore. Nel primo dopoguerra non aderì subito ai Fasci di combattimento, tuttavia pochi anni dopo espliciterà l'adesione al fascismo, ormai istituzionalizzato. Il 28 ottobre 1923 fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Chigi. Il 17 settembre 1924 Pirandello chiese l'iscrizione al PNF inviando un telegramma a Mussolini, pubblicato subito dall'agenzia Stefani:
« Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l'E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregerò come massimo onore tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera. »
Il telegramma arrivava in un momento di grande difficoltà per il presidente del Consiglio dopo il ritrovamento il 16 agosto del corpo dell'on. Giacomo Matteotti.
Per la sua adesione al fascismo, Pirandello fu pubblicamente duramente attaccato da alcuni intellettuali e politici italiani fra cui il deputato liberale Giovanni Amendola che in un articolo arrivò a dargli dell'"accattone" che voleva a tutti i costi divenir senatore del Regno. Pirandello, pur non ritrovandosi caratterialmente con Mussolini e molti gerarchi, che riteneva persone troppo rozze e volgari, oltre che poco interessati alla vera arte, non rinnegò mai la sua adesione al fascismo, motivata tra le altre cose da una profonda sfiducia nei regimi socialdemocratici (così come non si interessò mai del marxismo, solo ne I vecchi e i giovani mostra un leggero interesse per il socialismo), regimi nei quali sin da inizio novecento si andavano trasformando le democrazie liberali, che riteneva a loro volta corrotte, portando ad esempio gli scandali dell'età giolittiana e il trasformismo; provava inoltre un deciso disprezzo per la classe politica del tempo, che avrebbe voluto vedere, nichilisticamente, cancellata dalla vita del Paese, e una forte sfiducia verso la «massa» caotica del popolo, che andava, secondo lui, istruita e guidata da una sorta di "monarca illuminato".
Nel 1925 Pirandello fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile. L'adesione di Pirandello al Fascismo fu per molti imprevista e sorprese anche i suoi più stretti amici; sostanzialmente egli, per un certo conservatorismo che comunque aveva, guardava al Duce come riorganizzatore di una società in disfacimento e ormai completamente disordinata.
Un'altra motivazione addotta per spiegare tale scelta politica è che il fascismo lo riconduceva a quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui Pirandello era convinto sostenitore, anche per le radici garibaldine del padre. Pirandello vedeva, secondo questa tesi, nel Fascismo la prima idea originale post-risorgimentale, che doveva rappresentare la "forma" nuova dell'Italia destinata a divenire modello per l'Europa.
Potrebbe apparire un punto di contatto tra Pirandello e il fascismo il sostenuto relativismo filosofico di entrambi. In realtà ben diverso è il relativismo morale fascista fondato sull'attivismo soreliano e il relativismo esistenziale pirandelliano che si richiama all'originario movimento scettico-razionale europeo della fine del XIX secolo e l'inizio del XX.
« Pirandello si fa interprete di un relativismo pessimistico, angosciato, negatore di ogni certezza, del tutto incompatibile con l'ansia attivistica o relativistica - positiva - del nostro tempo »
Sempre nel solco di Amendola e dei critici antifascisti vi è anche un commento più pragmatico alla sua iscrizione al Partito fascista, la quale avrebbe avuto origine nel suo ricercare finanziamenti per la creazione della sua nuova compagnia teatrale, che avrebbe così avuto il sostegno del regime e le relative sovvenzioni, anche se il governo, perfino dopo il Nobel, gli preferì sempre Gabriele D'Annunzio e Grazia Deledda, anche lei vincitrice del premio, come letterati ideali del regime, mentre Pirandello ebbe molta difficoltà a reperire i fondi statali, che Mussolini spesso non voleva concedergli.
In ogni caso, come detto, non furono infrequenti suoi scontri violenti con autorità fasciste e dichiarazioni aperte di apoliticità: «Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto...».[26] Clamoroso fu il gesto del 1927, narrato da Corrado Alvaro, in cui Pirandello a Roma strappò la sua tessera del partito davanti agli occhi esterrefatti del Segretario Nazionale. Nonostante ciò, una rottura aperta col fascismo non si consumerà mai.
Nel 1929 fu uno dei primi 30 accademici, nominati direttamente da Mussolini, della neo costituita Reale Accademia d'Italia.
Nel 1935, in nome dei suoi ideali patriottici, partecipò alla raccolta dell'"oro per la patria" donando la medaglia del premio Nobel ricevuto l'anno prima, cosa fatta, tra gli altri, anche dall'antifascista Benedetto Croce, che donò la medaglia da senatore.
Questa scelta di adesione al regime è stata spesso sia minimizzata sia accentuata dalla critica, poiché sostanzialmente l'ideologia fascista non ebbe mai parte nella vita e nell'opera pirandelliana, abbastanza avulse della realtà politica, così che egli non fu in grado di vedere e giudicare le violenze fasciste; tuttavia il contenuto idealmente anarchico, corrosivo, pessimista e quasi sempre anti-sistema delle sue opere era guardato con sospetto da molti intellettuali e uomini politici del PNF, che non lo consideravano una vera "arte fascista". La critica fascista difatti non sempre esaltava le opere di Pirandello, spesso considerandole non conformi agli ideali fascisti: vi si vedeva una certa insistenza e considerazione di quella borghesia altolocata (che pure Pirandello non amava particolarmente) che il fascismo formalmente condannava come corrotta e decadente. Gli arzigogoli filosofici dei personaggi dei drammi borghesi pirandelliani erano considerati quanto di più lontano dall'attivismo fascista.
Anche dopo l'attribuzione del Nobel parecchi lavori furono accusati dalla stampa di regime di disfattismo tanto che anche Pirandello finì tra i "controllati speciali" dell'OVRA. Negli ultimi anni viaggerà difatti molto, andrà in Francia e negli Stati Uniti, quasi in un volontario esilio dal clima culturale italiano di quegli anni. Nonostante i suoi elogi al capo del governo, il Duce farà sequestrare l'opera La favola del figlio cambiato, per alcune scene ritenute non consone, impedendone le repliche (a Pirandello verrà imposta, per contrasto, la regia dell'opera dannunziana La figlia di Jorio).
Le volontà testamentarie di Pirandello, infine, che negavano ogni funerale e celebrazione dopo la morte dello scrittore, metteranno in imbarazzo i fascisti e lo stesso Mussolini, che ordinò così alla stampa che non ci fossero troppe celebrazioni postume sui quotidiani, ma che ne fosse data solo la notizia, come di un semplice fatto di cronaca
Il rifugio di Soriano nel Cimino
Luigi Pirandello amava trascorrere ampi periodi dell'anno nella quiete di Soriano nel Cimino (VT) un'amena e bella cittadina ricca di monumenti storici ed immersa nei boschi del Monte Cimino. In particolare Pirandello rimase affascinato dalla maestosità e dalla quiete di uno stupendo castagneto situato nella località di "Pian della Britta", a cui volle dedicare un'omonima poesia, che oggi è scolpita su una lapide di marmo posta proprio in tale località.
Pirandello ambientò a Soriano nel Cimino (citando luoghi, località e personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue più celebri novelle Rondone e Rondinella e Tomassino ed il filo d'erba. A Soriano nel Cimino, è rimasto vivo ancora oggi il ricordo di Pirandello a cui sono dedicati monumenti, lapidi e strade.
Luigi Pirandello frequentò anche Arsoli per molti anni, soprattutto durante i periodi estivi, dove amava dissetarsi con una gassosa nell'allora bar Altieri in piazza Valeria. Il suo amore per il paese si ritrova nella definizione che egli stesso diede ad Arsoli chiamandola "La piccola Parigi".
La morte e il testamento
Grande appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal, nel novembre 1936 si ammalò di polmonite. Pirandello aveva 69 anni, e aveva già subito due attacchi di cuore; il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti della vita, non sopportò oltre. Al medico che tentava di curarlo, disse: «Non abbia tanta paura delle parole, professore, questo si chiama morire»; dopo 15 giorni, la malattia si aggravò e il 10 dicembre 1936 Pirandello morì, lasciando incompiuto l'ultimo lavoro teatrale, I giganti della montagna, opera a sfondo mitologico. Il terzo atto venne ideato e illustrato al figlio Stefano nell'ultima notte di vita, che lo scrisse poi sotto forma narrativa, tentandone anche una ricostruzione, onde integrare la sceneggiatura del dramma che solitamente è però rappresentato nella forma incompiuta, in due atti.
Per Pirandello il regime fascista avrebbe voluto esequie di Stato. Vennero invece rispettate le sue volontà espresse nel testamento: «Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi». Per sua volontà il corpo, senza alcuna cerimonia, fu cremato, per evitare postume consacrazioni cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono deposte in un vaso greco e portate nella villa di contrada "Caos". Nel 1947, in contrasto con la volontà dello scrittore, vennero traslate in una bara su richiesta del vescovo di Agrigento e, dopo una cerimonia religiosa, vennero messe a riposare nuovamente nella villa, in attesa della costruzione di un monumento. Solo dopo parecchi anni dalla morte, nel 1962, le ceneri, in un'urna metallica, furono infine incassate in una scultura monolitica, mentre una parte venne dispersa, rispettando il desiderio di Pirandello stesso. (fine)