(Di Pasquale Hamel – nella foto) - Sono trascorsi 64 anni dal lontano 15 maggio 1946, data in cui veniva pubblicato il Regio decreto legislativo n. 455 che riconosceva la Sicilia, come Regione autonoma, retta da uno Statuto speciale che, dal gennaio de 1948, è legge costituzionale dello Stato repubblicano. Quel decreto concludeva un lungo percorso segnato da passioni e rinunce, da illusioni e disillusioni, e, soprattutto, da promesse mai mantenute.

La Sicilia aveva partecipato e contribuito al processo unitario, la stessa spedizione dei Mille per il cui successo, , come riconoscono gli storici, la partecipazione dei siciliani è stata determinante, ne è stato il fattore decisivo al punto che, si può affermare, con una certa enfasi, che l'Italia, così come la si è concretamente realizzata, è partita dalla Sicilia. Ma la Sicilia - per una tradizione millenaria, le cui radici affondano nella “nazione siciliana” , creata dai Normanni nel 1130 -, ha goduto, almeno fino al 1816, di forme di autogoverno nel quadro di una sovranità ampiamente riconosciuta, per questo motivo le sue elite più avanzate hanno preteso che, il riconoscersi parte dello Stato unitario fosse accompagnato dal individuazione di forme di Autonomia che garantissero l'autogoverno dei siciliani. Alle promesse, solennemente formulate nel clima convulso che portò alla fine del Regno meridionale, non corrisposero tuttavia i fatti. Le istanze autonomistiche vennero soffocate dall'accelerazione del processo di annessione incondizionata che si legittimava con un referendum esso stesso di dubbia legittimità. Da quel momento ogni e qualsiasi discussione relativamente a riconoscimenti di autonomia veniva, dallo Stato liberale, considerata eversiva e, per questo stesso motivo repressa, anche con le armi. D'altra parte, uno Stato che adottava una concezione laicista, spacciata per liberale, non poteva accogliere e discutere una proposta che era stata ed era sempre più divenuta bandiera di esponenti del cattolicesimo liberale. Personaggi del partito regionista, così allora si chiamavano gli autonomisti, come d'Ondes Reggio o Emerico Amari, protagonisti essi stessi del processo unitario, furono emarginati e i loro movimenti guardati con sospetto da quello che era divenuto un occhiuto stato di polizia. La seconda metà del secolo XIX, vide una sorta di declassamento della posizione della Sicilia nel contesto dello stato nazionale, qualcuno ha perfino parlato di riduzione a colonia. Il modello di Stato si era consolidato secondo una schema fortemente accentrato, con una aprioristica e autoritaria determinazioni delle vocazioni dei singoli territori con effetti devastanti sul futuro del Paese. Un modello chiuso e protetto che, per troppo tempo, ha visto destinare alla parte settentrionale del Paese la funzione produttiva lasciando al sud il ruolo di mercato allocativo. L'estensione della legislazione piemontese al Sud e alla Sicilia – la ferma obbligatoria e l'avocazione dei beni della Chiesa, ad esempio - senza tenere conto delle culture e delle vocazioni dei singoli territori, ebbe a produrre ulteriore impoverimento disarmonie e fratture piuttosto che realizzare quella necessaria integrazione fra i territori. Lo Stato unitario ha cominciato ad essere vissuto, nell'immaginario collettivo dei meridionali e dei siciliani in particolare, sempre più come “altro”. La frattura del sistema economico nazionale venne ulteriormente allargata dalla sconsiderata politica imperialista che, nell'ultima parte del secolo avevano messo in campo i governi guidati dall’ex democratico Francesco Crispi. Il conflitto con la Francia e la chiusura di alcuni necessari mercati hanno conseguenze pesanti per l’agricoltura, il comparto forte dell'economia siciliana. E mentre la corruzione dilaga - lo scandalo della Banca Romana, denunciato pubblicamente da Napoleone Colajanni, ne è l'esempio più clamoroso – le condizioni di vita delle popolazioni contadine siciliane assumono aspetti drammatici. Il tentativo di dare corpo ad un’organizzazione di lavoratori della terra, i cosiddetti Fasci siciliani, per rivendicare migliori condizioni, trova nel governo centrale una dura risposta. Proprio Crispi, approfittando di alcuni tumulti, avvia una forte repressione applicando i codici di guerra spacciando per insurrezione tesa all’eversione dallo Stato nazionale quella che invece era una protesta democratica per chiedere migliori condizioni di vita. Per la seconda volta, dopo la rivolta palermitana del “Sette e mezzo” la Sicilia si trovava nella condizione di paese occupato militarmente. Di quella repressione fanno le spese diecine di lavoratori caduti e intellettuali e capipopolo come Beniamino Verro, Giuseppe De felice Giuffrida o Nicola Barbato. La repressione aprì la strada ad un fenomeno epocale, l’esodo biblico di centinaia di migliaia di siciliani oltreatlantico alla ricerca di condizioni di vita migliori. L’emigrazione determinò traumi e ferite insanabili, ma creò anche le condizioni per una pacifica rivoluzione economico-sociale nel Mezzogiorno e nella Sicilia in particolare. Inoltre, la vittoria del regime forte metteva a nudo le debolezze di un sistema che non produceva quella crescita armonica cui bisognava aspirare. Lo stesso Crispi veniva travolto da quegli eventi e i nuovi governanti cominciavano a rendersi conto degli errori che avevano segnato il primo quarantennio di storia unitaria. Fu il nuovo presidente, il marchese Di Rudinì, che rendendosi conto della situazione accolse l’idea di istituire un Commissariato civile per la Sicilia, un istituto che “parve preludere all’introduzione dell’istituto regionale”. Si trattò, come al solito, di una speranza rapidamente abortita. Lo Stato unitario, come si è detto, marcava ancor di più la sua estraneità e alimentava la crescita di fenomeni deleteri come il sicilianismo appoggiato non solo dalla parte più conservatrice della società isolana ma, anche, da elementi malavitosi. D’altra parte, l’estraneità dello Stato rispetto alla società aveva, già dai giorni successivi all’unità, prodotto la crescita in termini di autorevolezza e forza, del fenomeno mafioso: un potere criminale, alternativo a quello dello Stato che veniva erroneamente percepito come più vicino e capace di rendere giustizia. Chiusa la vicenda del Commissariato civile, ancora una volta le istanze autonomistiche venivano ricacciate ai margini del dibattito culturale e politico. Non è un caso che pochi anni prima, Giovanni Gentile, nel suo Tramonto della cultura siciliana, avesse anche sul piano culturale liquidato ogni aspirazione autonoma della Sicilia nel contesto nazionale. Quella fiaccola venne ripresa dal calatino Luigi Sturzo che, partendo dalla concezione organica della società e riscoprendo la tradizione regionista cattolica, faceva della Regione uno dei cavalli di battaglia del programma del Partito popolare, strumento di partecipazione di cattolici ( e non) alla vita dello Stato. Sturzo, concepiva la Regione “come ente elettivo rappresentativo, autonomo autarchico, amministrativo-legislativo degli interessi circoscritti al proprio territorio “ ed inoltre “come unità convergente, non divergente dallo Stato” . In sintesi, una vera e propria autonomia politica che non aveva nulla a che vedere con certo decentramento amministrativo auspicato da protagonisti come Enrico La Loggia, autore, proprio neggli anni in cui il PPI elaborava il suo progetto regionalista, di un disegno di legge sul decentramento in materia di opere pubbliche. I tempi, tuttavia non erano favorevoli, ancora una volta il centralismo statuale, questa volta interpretato dal regime fascista impedivano la presa in considerazione di qualsiasi proposta che mirasse a dare corso ad esperienze autonomistiche. Più di vent’anni sarebbero trascorsi prima che si riproponesse il tema dell’Autonomia come centrale del dibattito politico. Mentre coloro che l’avevano avviato si trovavano o in esilio, come lo stesso Sturzo, o confinati in un forzato privato, l’iniziativa venne ripresa da alcuni esponenti del vecchio mondo liberale e la parte più tradizionalista della società siciliana i quali, piuttosto che a forme di autonomia, puntavano alla separazione della Sicilia dall’Italia rispolverando un indipendentismo nel quale convergevano interessi tutt’altro che progressisti, spesso reazionari e, perfino, mafiosi. La bandiera dell’indipendentismo fu agitata, soprattutto, da Andrea Finocchiaro Aprile, un esponente del mondo prefascista che aveva avuto responsabilità di governo negli anni immediatamente precedenti all’avvento del fascismo. Attorno a quel leader, che proclamava la secessione, stavano agrari come Lucio Tasca o Stefano La Motta ma anche giovani animati da forti motivazioni sociali o sincero patriottismo, come Antonio Varvaro o Antonio Canepa. Il Movimento indipendentista, carico di contraddizioni e spesso compromesso con poteri forti, ebbe il merito di proporre in modo forte la “questione siciliana”. E’ comune pensiero che, proprio per disinnescare la carica eversiva degli indipendentisti, il governo centrale al quale la Sicilia venne restituita dagli alleati, si dispose ad esaminare strumenti idonei a dare corso a sperimentazione di Autonomia. L’Alto commissariato per la Sicilia, varato dal governo Badoglio, coadiuvato da una Giunta che lo affiancava, sono i prodromi del processo autonomistico cui aderirono le forze migliori presenti in Sicilia e soprattutto i rappresentanti dei partiti del C.L.N. Ed infatti il passaggio successivo fu la nomina di una Consulta regionale per l’elaborazione dello Statuto della futura istituzione regionale siciliana. Naturalmente, non fu così semplice adottare un tale indirizzo, autorevoli forze tradizionalmente legate alla monoliticità dello Stato fecero sentire la loro voce di dissenso che non riuscì, tuttavia, a bloccare un processo avviato. D’altra parte, soprattutto per alcune tendenze politiche, il cammino si avviava su un percorso ampiamente tracciato, così per i cattolici da sempre autonomisti e carichi della lezione sturziana, così per i demolaburisti di La Loggia e di Guarino Amella, così anche per una parte dei socialisti. Ma al progetto non fecero barriera forze politiche e uomini appartenenti ad altre tradizioni come i liberali, la rimanente parte dei socialisti e, perfino, i comunisti. Mentre il Separatismo del MIS, consumava velleitariamente le sue ultime esperienze con la creazione, addirittura, di un piccolo esercito siciliano (E.V.I.S.) e non si faceva scrupolo di arruolare nelle proprie fila bande criminali come quella di Salvatore Giuliano, la Consulta avviava un serrato confronto plurale, elaborando ed approvando, alla fine di un denso percorso, la c.d. bozza Salemi, uno schema di Statuto che, pur tenendo conto delle varie proposte e proprio per evitare che emergessero problemi pregiudiziali, si fermava allo schema organizzativo evitando di fissare le finalità e le visioni che stavano dietro l’istituzione regionale. L’importante era che la Regione venisse istituita, che l’aspirazione secolare all’Autonomia venisse formalmente riconosciuta. La bozza di Statuto fu presentata alla Consulta Nazionale e approvata a larga maggioranza. Ora il Capo dello Stato, in quel momento ancora Regno, poteva dare la propria sanzione con la pubblicazione, in mancanza di un Parlamento democraticamente eletto, un Regio decreto legislativo. La data del 15 maggio, prescelta per la pubblicazione, fu sicuramente dettata da un fatto opportunistico, re Umberto II avrebbe con quell’atto voluto accattivarsi il consenso dei siciliani in vista del referendum istituzionale del 2 giugno successivo, ma questo fatto aveva un’importanza relativa di fronte all’enormità dell’avvenimento. Dopo infatti oltre ottant’anni di Stato unitario si avviava un processo di sostanziale decentramento, che avrebbe avuto conseguenze sulla successiva forma di Stato che l’Assemblea Costituente avrebbe dovuto disegnare: la Sicilia, come per l’avventura dei Mille era ancora protagonista di un nuovo corso, dalla Sicilia partiva dunque la nuova Italia ad impianto regionalista. Anche in fase di costituzionalizzazione dello Statuto quelle resistenze centralistiche si fecero sentire, non è un caso che Luigi Einaudi denunciò il pericolo che la istituzione regionale avrebbe frantumato l’unità finanziaria dello Stato e che nel testo approvato fossero state introdotte delle norme eversive. Ma la forza della storia non poteva essere arrestata, lo Statuto diveniva legge costituzionale con legge 26 febbraio 1948. “Lo Statuto speciale per l’autonomia regionale della Sicilia – scriveva Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione siciliana, in occasione del decimo anniversario della sua approvazione - sta al corpo delle leggi costituzionali come la parte al tutto, come un pilastro all’edificio comune; sta in tale vincolo, insomma con gli ideali e il costume della nuova democrazia, con le strutture della nuova compagine statale, che ogni violazione, sia dello spirito nazionale che lo sostiene, sia della tutela degli interessi locali che lo giustifica, pregiudicherebbe la forza medesima del nostro sistema costituzionale secondo l’ammonimento di Cicerone ‘sarvata servat; corrupta corrumpit !’ “ Pasquale Hamel