Il testo che qui presentiamo è estratto dal volume Global Africa. La nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento (Guerini e associati, pagine 192, euro 17,50) di Mario Giro, docente di relazioni internazionali e già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della comunità di Sant’Egidio.
Si lascia un mondo corrotto e senza diritti, si cerca un altrove. Si tratta di un’impresa pionieristica, un’avventura come si è detto, una specie di ’68 africano. Quello africano è da sempre uno scenario migratorio a due facce: si tratta del continente più «mobile» del mondo, con numerosi paesi di emigrazione e altrettanti di immigrazione. A ciò si aggiunge la presenza, intermittente, di un alto numero di sfollati e rifugiati dovuti alle crisi politiche ma soprattutto alle condizioni ambientali di alcune aree. In Africa la gente si sposta da sempre, tanto più oggi che l’ambito urbano fa da grande richiamo per le opportunità che offre. Lontano dai riflettori dei media e dalle statistiche ufficiali, milioni di africani si muovono in maniera silenziosa e continua, solitamente verso i paesi limitrofi. Studiare questi flussi è utile per comprendere cosa potrà accadere. Contrariamente a ciò che si pensa, l’Africa occidentale e saheliana, ad esempio, è sempre stata una «terra in movimento» e non immobile: spazio di spostamenti e trasferimenti legati ai commerci con la costa mediterranea, indotti dai pellegrinaggi verso la Mecca, dalla transumanza delle mandrie, dai fenomeni ambientali e dalle guerre locali. Anche la tratta degli schiavi (sia quella atlantica che quella orientale) si inserì in tale mobilità, rafforzandone gli effetti. Già prima della colonizzazione in quell’area esistevano veri e propri imperi «portatili» (senza frontiere fisse) e «Stati acefali» (con capitale mobile), effetto di conquiste e spostamenti geografici del potere. L’unica continuità indiscussa era quella dei clan e delle famiglie, in specie i lignaggi più estesi e nobili. Una mappa umana che solo gli africani sanno leggere. La «politica dei matrimoni», che i terroristi islamici utilizzano oggi per installarsi nelle aree del Sahel, deve molto a tale tradizione. L’indirect rule britannico (in particolare per la Nigeria) e il sistema alla francese a questo riguardo differivano di poco: entrambi i modelli si avvalevano dei clan autoctoni più forti e più autorevoli per affermare la propria autorità sulla popolazione. La popolazione africana è antropologicamente molto più complessa delle cittadinanze moderne di passaporto. Vi sono popoli, come i “peul” (un grande raggruppamento di clan diversi di circa 40 milioni di persone, presenti in un’ampia fascia che va dalla Repubblica di Guinea al Centrafrica), che ancora si spostano e sono presenti in numerosi paesi: dalla costa atlantica alle foreste nel cuore del continente. Per loro vale l’antica diatriba agricoltori-mandriani: se non trovano pascoli, scoppia la siccità o vengono disturbati da troppe coltivazioni, si spostano altrove. Ciò provoca conflitti che si innestano su quelli politici, interni o internazionali come accade oggi in Mali. In Guinea le ultime due presidenziali si sono svolte attorno al tema del «pericolo peul»; in Mali e Niger alcuni clan peul si sono saldati con gruppi ribelli locali e in certi casi si sono fatti jihadisti. Si tratta di «movimenti» o alleanze temporanee e a ciclo continuo. Sui monti Mandara e attorno al lago Ciad la questione Boko Haram vive un intreccio simile, connettendosi con altre annose vicende locali. In Africa per molte popolazioni le frontiere non hanno senso, soprattutto quelle lontane dalle grandi città. Tradizionalmente, la prima scelta di un africano non era l’emigrazione fuori dal continente, percepita come un esilio. Nella letteratura africana pre e post-coloniale, partire per «il paese dei bianchi» era una lacerazione, una perdita d’identità che si accettava solo per eccesso di bisogno. Va anche ridimensionata l’ossessione demografica: ad eccezione della Nigeria, il continente africano è sottopopolato. L’Africa rappresenta oggi il 16-17% della popolazione mondiale, la stessa percentuale di quattro secoli fa. Giungerà verso la fine del secolo ad avere quel quarto di popolazione mondiale che aveva prima della tratta. Il caos provocato dalla globalizzazione ci obbliga a «leggere » il fenomeno di tali movimenti in maniera nuova anche rispetto alla tradizione africana. Mai come oggi si è verificato un distacco tra generazioni, talvolta violento. L’unità africana fu l’altro sogno della vecchia generazione, come illustra il valore di «ubuntu» («io sono perché noi siamo») o si legge nel Soleil des indépendances: tutto un mondo ormai sulla via del tramonto. Oggi nelle grandi città africane le relazioni sociali si sono frantumate: non c’è più il rispetto per gli anziani che vengono abbandonati, emerge la famiglia mononucleare al posto di quella allargata della tradizione ma soprattutto, malgrado l’affollamento, inizia a regnare la solitudine: ognuno è lasciato a se stesso. L’asfissiante controllo degli adulti vacilla anche se ciò non vale per le ragazze, la cui esistenza è ancora condizionata dalle famiglie in tutte le scelte della vita. All’età di vent’anni una gran parte delle ragazze africane è già madre: non «per errore» come capita altrove ma perché fare figli è considerato dalle famiglie una forma di investimento. D’altronde il 40% delle famiglie africane è retto da una donna sola. La vita del giovane africano contemporaneo, largamente urbanizzato, è condizionata da tale fragilità della famiglia e dalla fine dei sistemi tradizionali di protezione (che tuttavia restano autoritari), dalla mancanza di educazione e lavoro, dal rischio di ammalarsi e dal dispotismo delle istituzioni. Per questo la stragrande maggioranza è convinta che, per fuggire la morte sociale, emigrare sia un diritto inalienabile. Da soli e senza il consenso della famiglia (esattamente come accade per i foreign fighters), decidono di emigrare a tutti i costi (anche a costo della vita) o si lasciano attrarre da avventure violente. Tali migrazioni assumono l’aspetto di una lotta per la vita: infatti in ambiente musulmano spesso vengono chiamate «jihad migratorio». Per contrastare tale deriva urge innanzitutto ricostruire lo Stato africano laddove esso è crollato: senza Stati che siano un minimo funzionanti le popolazioni africane continueranno a lasciare il continente. Occorre evitare che altri paesi (Niger, Ciad, Mali, Mauritania, Burkina Faso) conoscano derive simili a quella libica. Inoltre tali Stati vanno aiutati a fornire un minimo di welfare ai cittadini: per stabilizzare i fenomeni migratori occorre investire nel sistema scolastico pubblico e nella sanità pubblica. È utile impedire che falliscano le città, dove nascono le connessioni con i trafficanti. Megalopoli incontrollate e violente sono il miglior bacino di ogni traffico. L’immenso mondo rurale africano è una ricchezza da proteggere dai fenomeni climatici, dalle pandemie e dalla deforestazione selvaggia. La nostra percezione è che gli Stati africani traggano profitto dai flussi migratori, mentre in realtà questi ultimi minano la tenuta stessa degli Stati. Narcotraffico, commerci illegali, migrazioni e terrorismo sono fenomeni globalizzati e interconnessi, che puntano a costituire una forza alternativa a quella delle istituzioni. Si tratta di eventi che possono minare le basi della statualità africana e produrre una pletora di jihadistan o di altre Libie. Quanto accade nel Nord del Mali è allarmante: il paese si sta destrutturando sotto l’urto sia delle mire secessioniste dei tuareg che dei colpi dei terroristi islamici. Questi ultimi non sono stati definitivamente sconfitti dopo l’intervento militare di Francia e Ciad del 2012, e si sono riorganizzati facendo leva sul malcontento delle popolazioni locali. La loro zona di operazioni ormai si allarga oltre il Mali e lambisce Burkina Faso e Niger. Inoltre la saldatura tra interessi di alcune popolazioni e offerta jihadista (magari declinata in nuove identità) è molto pericolosa per tutta l’area. Ciò che avviene non lontano dalle coste d’Europa è più complicato di una semplice questione di distinzione tra rifugiati (a causa della guerra) e migranti economici, e fa emergere terribili rischi. by Raiawadunia - Mario Giro per Avvenire - Segnalazioni, a cura di Sergio Falcone