ROMA - Sono 616mila (il 10,1% del totale) le imprese gestite da lavoratori immigrati in Italia. attive soprattutto nel commercio e nei servizi, appartengono soprattutto a nati in Marocco (14,1%), Cina (11,5%) e Romania (10,7%),
seguiti dagli originari di Albania (6,9%) e Bangladesh (6,6%). Poche, ancora, le imprese guidate da donne immigrate. Sono solo alcuni dei dati raccolti nel Rapporto Immigrazione e Imprenditoria – realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in collaborazione con la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa (CNA) e con il contributo dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) - Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo – presentato oggi online. Come ogni anno, il Rapporto – anche in questa edizione redatto sia in italiano che in inglese – fotografa l’eterogeneo universo dell’imprenditorialità immigrata per comprenderne le caratteristiche e le articolazioni e, quindi, per contribuire a individuare le strategie di intervento più adeguate a valorizzarne l’apporto.
LA SCHEDA DI IDOS L’ITALIA NEL QUADRO EUROPEO
Nel Rapporto, vengono presentate le iniziative e politiche europee a favore dell’inclusione finanziaria degli imprenditori immigrati, che offre indicazioni preziose tanto più nell’attuale scenario emergenziale da pandemia. Il sostegno finanziario, si sottolinea, si articola su più livelli, che, soprattutto se combinati tra di loro e tarati sulle esigenze specifiche dei soggetti interessati, si rivelano in grado di mitigare fortemente il rischio di fallimento. Si evidenziano tre ambiti di intervento fondamentali: il sostegno finanziario diretto, che può assumere forme varie e potenzialmente composite (piccoli prestiti a tasso zero o a basso tasso di interesse, sovvenzioni erogate da istituti finanziari, garanzie e controgaranzie agli intermediari finanziari, fondi previdenziali, gruppi di prestito…); il supporto nel processo di richiesta di finanziamento; la fornitura di spazi lavorativi e/o il supporto nella ricerca di spazi adeguati. Intanto, i dati della Labour Force Survey di Eurostat continuano ad attestare la costante crescita dei lavoratori autonomi e degli imprenditori di origine immigrata, che, associata al tendenziale calo di quelli autoctoni, ne conferma il ruolo crescente. Nel 2018, nell’UE a 28 precedente la Brexit, il 12% degli oltre 30,2 milioni di lavoratori indipendenti è di origine immigrata: il 4,4% proviene da un altro Paese dell’UE e il 7,3% ha un’origine non comunitaria. In generale, la maggiore diffusione del lavoro indipendente tra gli autoctoni sembra indurre un più alto tasso di imprenditorialità anche fra i migranti. La propensione imprenditoriale (valutata a partire dalla quota dei lavoratori indipendenti sul totale della popolazione attiva) appare comunque ancora leggermente più elevata tra i primi (13%), tanto rispetto agli immigrati comunitari (12%) che non comunitari (11%), con un divario che si accentua nei Paesi del Sud Europa (Italia inclusa). In continuità con gli anni precedenti, si conferma anche il forte protagonismo del lavoro autonomo e delle imprese di più piccole dimensioni, con oltre il 70% degli imprenditori che non ha dipendenti a carico (un dato che cresce nello specifico del caso italiano e che, seppure con diverse modulazioni, caratterizza tanto l’imprenditorialità autoctona che quella immigrata). Dal 2009 al 2018, anzi, si è registrata una leggera diminuzione delle attività con lavoratori alle dipendenze, specialmente tra gli immigrati di origine non comunitaria. Gli ultimi dati disponibili delineano dunque un quadro in cui alla crescita quantitativa del lavoro indipendente dei migranti stenta ad associarsi un progressivo consolidamento delle attività avviate. Una prospettiva che, al contrario, sembra cedere il passo a un quadro di lieve deterioramento generale (o almeno di diffusa fragilità), che non potrà che risultare aggravato all’impatto delle evoluzioni più recenti. Il panorama italiano tra crescita, precarietà e progressiva diversificazione Nel corso degli ultimi anni, in controtendenza rispetto al resto della base imprenditoriale del Paese, il numero delle attività indipendenti degli immigrati in Italia ha continuato a crescere, distinguendosi per un contributo di rilievo agli equilibri dell’intero sistema di impresa nazionale. Sotto la spinta degli effetti della crisi del 2008, i lavoratori immigrati hanno garantito un apporto determinante in termini di tenuta della base imprenditoriale, spesso coprendo le posizioni lasciate scoperte nel passaggio generazionale o rispondendo alla crescente domanda di lavoro autonomo indotta da sistemi produttivi sempre più decentrati. Dal commercio all’edilizia, dalle attività di ristorazione alla manifattura, dalla logistica ai servizi alle imprese, le iniziative autonomo-imprenditoriali gestite dai migranti si sono diffuse in tutte le regioni, affermandosi definitivamente come una componente strutturale del tessuto d’impresa nazionale, che trova i suoi “punti di forza” in un accentuato dinamismo e in una altrettanto accentuata capacità di adattamento alle esigenze del mercato. I dati raccolti e analizzati nel Rapporto evidenziano questa rilevante crescita, che si accompagna a una lenta (ulteriore) diversificazione del profilo dell’imprenditore immigrato: una categoria sotto la quale si raccolgono caratteristiche ed esperienze molteplici e sempre più variegate.
IMPRESE “IMMIGRATE”: QUANTE SONO
Tra il 2011 e il 2018, mentre le imprese guidate da lavoratori nati in Italia diminuivano del 2,8% (-158mila), quelle gestite da lavoratori immigrati sono aumentate del 32,6% (+148mila), superando la soglia delle 600mila unità. Il trend è continuato anche nel corso del 2019, portandone il numero a 616mila e l’incidenza sul totale delle imprese al 10,1%. I nati in Marocco (14,1%), Cina (11,5%) e Romania (10,7%), seguiti dagli originari di Albania (6,9%) e Bangladesh (6,6%), coprono la metà del totale e mostrano tutti specifiche tendenze alla concentrazione settoriale. Guardare al fenomeno attraverso la lente dei grandi numeri permette di distinguerne le caratteristiche principali, a partire dalla netta preminenza delle attività di più piccole dimensioni. Le ditte individuali – adatte a un volume di attività ridotto e più accessibili in termini economici, di capacità gestionale e competenza burocratico-amministrativa – superano i tre quarti del totale: 77,7% (vs il 49,3% tra le imprese “autoctone”). I dati Istat (relativi alle imprese attive nell’industria e nei servizi nel 2016) dettagliano il quadro, attestando una media di 2,3 addetti per azienda e il prevalente (seppure non maggioritario) ricorso a manodopera di origine straniera (49,5%). Il commercio (35,1%, 211mila), soprattutto al dettaglio, e l’edilizia (22,4%, 135mila) si confermano come i principali ambiti di inserimento. Le attività di noleggio, agenzie di viaggio e (soprattutto) di servizio alle imprese si distinguono, invece, per la più alta incidenza delle imprese immigrate sul totale (17,0%). La ridotta dimensione economico-organizzativa si rispecchia nella prevalente collocazione in attività a basso valore aggiunto. Ne discende, secondo l’Istat, un contributo pari al 2,4% del totale nell’industria e nei servizi e performance economiche segnate da livelli di produttività e di redditività nel complesso ridotti. Il fenomeno è diffuso su tutto il territorio nazionale. Le regioni del Centro-Nord, da un lato, e le grandi aree metropolitane, dall’altro, rappresentano i principali territori di attività. Lombardia (19,4%) e Lazio (13,3%) si confermano le regioni di maggiore inserimento, seguite dalla Toscana (9,4%), che registra la maggiore incidenza delle imprese guidate dagli immigrati sul totale delle iniziative locali (9,4%). Resta bassa la partecipazione delle donne, che gestiscono poco meno di un quarto delle imprese qui considerate (145mila, 24,0%). Il quadro dei principali Paesi di origine degli imprenditori coinvolti (qui individuati grazie ai dati sui titolari di imprese individuali) evidenzia un ristretto gruppo di nazionalità, che solo in parte rimanda alle collettività più numerose tra gli immigrati in Italia. I nati in Marocco (14,1%), Cina (11,5%) e Romania (10,7%), seguiti dagli originari di Albania (6,9%) e Bangladesh (6,6%), coprono la metà del totale e mostrano tutti specifiche tendenze alla concentrazione settoriale. Marocchini e bangladesi convergono soprattutto nel commercio (rispettivamente, nel 70,1% e nel 64,3% dei casi), romeni e albanesi verso l’edilizia (60,0% e 68,8%), mentre i cinesi – caratterizzati da un modello di inserimento diversificato e flessibile – si raccolgono soprattutto nel commercio (35,7%), nella manifattura (32,7%) – dove rappresentano la metà di tutti gli immigrati (49,3%) – e nei servizi di alloggio e ristorazione (13,4%). Su un quadro così definito si vanno evidenziando diversificate linee di evoluzione, che, secondo un andamento lento ma progressivo, stanno gradualmente attenuando la preminenza degli elementi appena richiamati. Così, le società di capitale si evidenziano come la forma di impresa che cresce secondo i ritmi più elevati (+72,7% dal 2011) e alla fine del 2018 coprono il 14,2% di tutte imprese immigrate (vs il 10,0% del 2013). Cresce anche la partecipazione degli immigrati alle start-up innovative (sono oltre 1.500 alla fine del 2019 quelle che contano tra i soci e gli amministratori almeno un soggetto nato all’estero: il 13,9% del totale), mentre i dati Istat attestano l’aumento, tra i neo-imprenditori con dipendenti, della quota di quelli di origine straniera (il 15,2% del totale nel 2016) e la loro notevole presenza anche nelle aziende High-growth (8,1%). Si delinea, inoltre, una progressiva apertura a forme di impresa ibride o multiculturali, ovvero gestite in collaborazione tra autoctoni e migranti, anche di varia origine (pari al 6% delle imprese degli immigrati alla fine del 2008 e al 10,6% nel caso delle aziende guidate dai comunitari), e si rafforza, in parallelo, l’internazionalizzazione dell’attività. Nonostante la scarsa attenzione loro riservata, queste aziende sono già una realtà anche nei settori tipicamente associati al made in Italy (come la manifattura, la metalmeccanica o la moda) e dimostrano una maggiore capacità di reazione costruttiva agli shock esterni, finendo col rappresentare una specie di “simbolo” di un percorso di crescita e di integrazione imprenditoriale pienamente condiviso. Fuori dai settori “tradizionali” (commercio, costruzioni, manifattura a bassa tecnologia), inoltre, si rileva anche un prevalente ricorso a manodopera italiana o mista. Nel quadro degli ambiti di inserimento, si rafforza il ruolo del terziario e, mentre il commercio appare attraversato da una significativa diversificazione interna, le attività di noleggio, agenzie di viaggio e di servizio alle imprese si evidenziano per i ritmi di aumento più sostenuti (+93,4% dal 2011), seguiti dai servizi di alloggio e di ristorazione (+61,5% dal 2011), che alla fine del 2018 si affermano come il terzo comparto di attività (8,1%, 49mila). Cresce secondo ritmi accentuati anche la partecipazione delle donne immigrate, che lentamente ma con continuità si ritagliano maggiori spazi di azione. Dopo un aumento del 37,4% rispetto al 2011, alla fine del 2018 sono 145mila le imprese immigrate femminili, il 24,0% del totale delle imprese immigrate e il 10,8% di tutte le imprese femminili del Paese. Rispetto al resto delle attività si distinguono per un maggiore e più diversificato inserimento nei servizi. Anche grazie al progressivo inserimento delle donne e delle nuove generazioni, si va lentamente attenuando il peso delle specializzazioni etniche e, in parallelo, l’influenza delle reti familiari e comunitarie nella determinazione (e nella gestione) dell’attività. Un passaggio di grande rilievo in una prospettiva di consolidamento delle esperienze avviate, dato che la probabilità di sopravvivenza e sviluppo di un’impresa si giova del superamento dell’ambito ristretto delle relazioni tra connazionali e, quindi, dell’investimento sulla valorizzazione di relazioni allargate a un ambiente interculturale. Da qui la spinta ad adottare uno sguardo al mondo imprenditoriale che sia il più possibile intersezionale ed inclusivo, anche in termini di nazionalità e bagaglio culturale di riferimento, per la promozione di un’esperienza di impresa che rispecchi e sappia valorizzare l’ibridismo proprio delle nostre società. Molteplici sono anche le prospettive che si aprono in chiave di co-sviluppo, evidenziate nel dibattito internazionale. Nel Rapporto si richiama questo potenziale, che ancora stenta a trovare le condizioni adeguate per esprimersi pienamente, nonostante con la Legge 125/2014, che disciplina la Cooperazione italiana allo sviluppo, la dimensione migratoria sia stata per la prima volta esplicitamente riconosciuta come rilevante nel quadro legislativo di riferimento.
UN UNIVERSO ETEROGENEO, DA RICONOSCERE E SOSTENERE
Le analisi raccolte nel Rapporto descrivono un universo in forte crescita, con un impatto di rilievo sul sistema di impresa italiano, che si esprime innanzitutto in attività di piccole dimensioni, inserite negli ambiti più facilmente accessibili, in cui non agisce (o agisce poco) la concorrenza degli autoctoni. Pur nella persistenza di tali evidenti caratteristiche di fondo, si tratta di un universo estremamente eterogeneo e dinamico, che lascia intravedere possibili scenari di evoluzione positiva, che andrebbero però pienamente riconosciuti e sostenuti per poter risultare effettivamente influenti. In questo quadro, si abbattono gli effetti inevitabilmente dirompenti dell’attuale fase emergenziale che, oltre a indebolire qualsiasi prospettiva di consolidamento e di concreta espressione del potenziale dell’imprenditorialità immigrata (e dell’imprenditorialità tout court), rischiano di abbattersi prepotentemente sulla stessa capacità di resistenza e di sussistenza delle attività più fragili (e più diffuse). Di riflesso, le politiche di riferimento, oltre a mirare ad azioni di promozione e di supporto delle dinamiche evolutive e delle potenzialità che caratterizzano il fenomeno, dovranno rispondere all’urgenza di sostenerne l’attività e contrastarne i processi involutivi e le dinamiche più deteriori. In entrambi i casi, si evidenzia la necessità di: - promuovere un approccio integrato e sistemico, che risponda alla carenza di una governance condivisa tra i diversi livelli istituzionali e crei reti sinergiche tra i servizi attivati sul territorio; - promuovere le relazioni e la collaborazione tra le diverse componenti della base imprenditoriale di un territorio per sostenere l’emersione di strategie imprenditoriali rinnovate e condivise; - confermare e rendere più accessibili i percorsi di formazione e accompagnamento ad hoc, da estendere oltre la fase dello start-up (e da abbinare alla semplificazione burocratica); - promuovere iniziative di sostegno finanziario e agevolare l’accesso al credito tramite misure diversificate e tarate sulle esigenze specifiche dei singoli. (aise)