ROMA – Fin dagli anni ’70 le donne protagoniste dell’immigrazione dall’estero, ancora oggi maggioritarie tra i residenti stranieri, attive nell’associazionismo e nella partecipazione sociale, fondamentali al welfare del Paese, ma gravemente penalizzate nel lavoro e nella società.
Su di esse pesano discriminazioni dovute alla differenza di genere e cittadinanza che ne ostacolano l’affermazione personale e il benessere socio-economico. Il 28 febbraio 2023, alle ore 16 presso l’Auditorium di Via Rieti a Roma, sarà presentato il libro “Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità”, lo studio socio-statistico del Centro Studi e Ricerche IDOS e dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” che analizza il fenomeno in maniera organica. Le donne sono state protagoniste – si legge nella nota dell’Idos – dell’immigrazione straniera in Italia sin dai suoi esordi, eppure la loro specifica condizione è stata a lungo trascurata: assimilata a quella degli uomini o identificata con ruoli marginali, passivi e stereotipati. La storia dell’immigrazione femminile in Italia, con i relativi dati, parla invece di donne dinamiche, autonome nei loro percorsi e protagoniste delle loro vite, ma marginalizzate e schiacciate su posizioni subalterne da modelli di organizzazione sociale ed economica gerarchizzati per genere e cittadinanza. Emblematica di tale situazione è la loro condizione occupazionale, che da decenni resta ingabbiata in ambiti e ruoli occupazionali non solo svantaggiati, ma anche rigidamente predeterminati, i quali ne riducono sia le opportunità occupazionali sia la mobilità sociale e la visibilità nel mondo del lavoro e nella vita collettiva. Sebbene tra gli stranieri residenti in Italia a fine 2021 le donne siano il 50,9% (quasi 2,6 milioni), esse scendono al 42% tra gli occupati (949.000) per risalire al 52,5% tra i disoccupati (199.000). Inoltre, il loro tasso di occupazione (45,4%) è in assoluto il più basso, rispetto sia agli occupati complessivi (58,2%), sia alle donne italiane (49,9%), sia agli uomini stranieri (71,7%), dai quali sono distanziate di ben 26,3 punti percentuali (tra gli italiani il divario di genere è di 16,7 punti). Una sotto-rappresentanza statistica, questa delle donne straniere nei dati sull’occupazione regolare, che rimanda anche a un loro più ampio coinvolgimento nel lavoro nero. Tra le lavoratrici regolari, quasi 9 su 10 sono occupate nei servizi (87,1%) e la metà si ripartisce in appena 3 professioni (collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e impiegate nelle pulizie di uffici ed esercizi commerciali), a fronte di 12 tra tutti gli stranieri e 45 tra gli italiani. Così, nonostante siano più istruite degli uomini, le immigrate hanno molte meno possibilità di trovare un lavoro coerente coi propri titoli: è infatti sovra-istruito ben il 42,5% delle occupate straniere, contro il 25,0% dei lavoratori italiani e il 32,8% degli stranieri in generale. Inoltre, esse sono più esposte al part-time involontario, che svolgono nel 30,6% dei casi, ossia in misura quasi tripla degli uomini stranieri (11,6%) e quasi doppia delle italiane (16,5%). Di riflesso, percepiscono una retribuzione media mensile di appena 897 euro al mese (-29% rispetto alle donne italiane e -27% rispetto agli uomini stranieri), una condizione che colloca la metà delle immigrate nel 20% più povero della popolazione. In particolare, il crescente inserimento occupazionale delle donne italiane ha avuto come contropartita la diffusa delega alle straniere del lavoro domestico e di cura: un compito che continua a ricadere primariamente sulle donne e che, per le immigrate, si traduce in un accesso penalizzante al lavoro, che le confina in ruoli di accudimento e, al tempo stesso, sacrifica la loro dimensione familiare e affettiva. Nel comparto domestico il 70% degli addetti è straniero e, tra questi, l’85% è una donna. Anche a causa della massiccia concentrazione nella collaborazione domestica e familiare, durante la pandemia le straniere sono state più esposte ai contagi da Covid-19 sul posto di lavoro, i quali le hanno riguardate in ben 8 casi ogni 10 denunciati da lavoratori stranieri nel 2020 e 2021… La condizione di madre, soprattutto se lasciata sola nei compiti di cura e genitorialità, – continua la nota – acuisce l’esclusione dal lavoro anche e soprattutto tra le immigrate, evidenziando una più forte collisione tra occupazione e impegno familiare: le madri straniere di 25-49 anni con figli in età prescolare hanno un tasso di occupazione (46,4%) decisamente più basso di quelle senza figli (77,9%). In sintesi, se nel complesso i lavoratori stranieri sono massicciamente incanalati e mantenuti in posizioni lavorative subalterne, tra di loro le donne sono ulteriormente penalizzate, in quanto incanalate in attività essenziali (oltre al lavoro di cura, anche il lavoro in agricoltura, i servizi presso uffici, alberghi e ristoranti) ma poco riconosciute nel loro valore sociale ed economico, poco tutelate e caratterizzate da maggiore sfruttamento e lavoro nero. Così, sebbene le donne di origine immigrata – di prima e di nuova generazione – esprimano un protagonismo autonomo dal mondo maschile, si muovano come soggetti consapevoli nei flussi migratori, nel mercato del lavoro e nella società (dove si impegnano con associazionismo, nuove forme di attivismo, produzioni artistiche e letterarie), esse restano bloccate tra una forte volontà di affermazione personale e la cronica esposizione a condizioni di vulnerabilità, pagando condizionamenti culturali tanto in famiglia quanto nella società – di partenza e di arrivo – che le relegano a ruoli di subordine e di minorità. È proprio a questa “presenza assente” e trascurata nelle politiche migratorie, di asilo e di welfare, che il Centro Studi e Ricerche IDOS e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” intendono restituire la dovuta attenzione e visibilità con la pubblicazione di questa ricerca innovativa nel suo genere. (Inform)