Roma – I discorsi di insediamento dei dodici predecessori al Quirinale di Sergio Mattarella (compreso lo stesso Mattarella, succeduto a sé stesso) hanno scandito tornanti decisivi, a volte drammatici della storia repubblicana. Il battesimo toccò a Enrico De Nicola, eletto capo provvisorio dello Stato il 28 giugno 1946 (al primo scrutinio con 396 voti su 501), che prestò giuramento il 1° luglio successivo.
Erano tempi duri, quelli vissuti da un Paese che doveva uscire dalle tragedie del fascismo e della guerra, avviarsi alla vita democratica tra enormi difficoltà materiali. Nel suo discorso di insediamento, l'uomo politico napoletano (avvocato di professione) affermava: "Per l'Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All'opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe". E i partiti, sottolineava l'allora capo dello Stato, "dovranno procedere, nelle lotte per il fine comune del pubblico bene, secondo il monito di un grande stratega: marciare divisi per combattere uniti". Le parole sono quelle, celebri, del generale prussiano Moltke. Nella primavera del ’48, le elezioni videro la vittoria della Democrazia Cristiana in uno scontro radicale, quasi di civiltà, con il Fronte popolare composto da Pci e Psi. Luigi Einaudi, tra i volti più autorevoli del liberalismo italiano, venne eletto presidente l'11 maggio 1948 (al quarto scrutinio con 518 voti su 872) e prestò giuramento il giorno successivo: alla fine del suo discorso, Einaudi invitava senatori e deputati a volgere lo sguardo verso l'alto e a intraprendere "umilmente il duro cammino" durante il quale l'Italia è "destinata a toccare mete ognor più gloriose di grandezza morale, di libera vita civile, di giustizia sociale e quindi di prosperità materiale". Di lì a un decennio sarebbe nata, dopo gli anni difficili del dopoguerra, l'Italia del boom economico. Alla metà degli anni Cinquanta, precisamente il 29 aprile 1955, venne eletto al Colle (al quarto scrutinio con 658 voti su 833) il Dc Giovanni Gronchi, tra i fondatori del Partito popolare italiano, che prestò giuramento l'11 maggio: nel suo discorso penetrava il clima della guerra fredda, con "tutti i problemi che dividono in Europa l'Occidente dall'Oriente, e nel mondo milioni di uomini in opposte trincee". Nell’estate del 1961 fu eretto il muro di Berlino, uno dei simboli della Guerra Fredda. Dall'area democratico-cristiana veniva anche Antonio Segni, eletto il 6 maggio 1962 (al nono scrutino con 443 voti su 854): prestò giuramento l'11 maggio. Sono gli anni delle riforme sociali varate dai governi di centrosinistra, per dare un volto più equo allo sviluppo economico e alla società dei consumi che prendeva piede in Italia. Sono anche gli anni in cui si consolidava il processo di integrazione europea (cinque anni prima, nel 1957, era stato firmato a Roma il trattato che istituiva Cee ed Euratom) e i toni europeistici sono forti nel suo giuramento: "I nuovi legami che si stanno per contrarre in Europa significheranno il superamento definitivo di antichi, sterili antagonismi". Malato, Segni fu costretto a rassegnare le dimissioni alla fine del 1964. Gli successe Giuseppe Saragat, fondatore del Partito socialdemocratico italiano, eletto il 28 dicembre 1964 (al ventunesimo scrutinio con 646 voti su 963). Nel suo discorso rimarcava il valore della cultura e della scienza, in un decennio di forte fiducia nel futuro e nel progresso (al 1969 risale l’allunaggio, raccontato magistralmente agli italiani da Tito Stagno, scomparso proprio in questi giorni): "Vita e cultura non possono considerarsi contrapposte e, se ogni sforzo deve essere fatto per avvicinare tutti i cittadini alle creazioni dello spirito artistico e scientifico, non meno necessario è far sentire agli artisti, agli scrittori, agli scienziati, ai pensatori che essi non debbono isolarsi in una torre di avorio, ma partecipare alla vita attiva della Nazione in cammino sotto il segno della democrazia". Nel suo settennato, Saragat avrebbe visto l'esplosione colorata del sessantotto ma anche l'inizio dell’oscurità, la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 che avviò la stagione del terrorismo e della cosiddetta 'strategia della tensione', dando al decennio che seguiva un tono ben diverso dal precedente, tra crisi economica e anni di piombo. Il Dc Giovanni Leone visse gran parte di questo decennio dal Colle, eletto alla vigilia di Natale del 1971, dopo ben ventitré scrutini, con 518 voti. La Repubblica democratica "è da venticinque anni una realtà viva e operante - ricordava nel discorso di insediamento -. Occorre custodirla, nei suoi valori fondamentali di giustizia e libertà". Repubblica che visse uno dei momenti più duri per la sua stessa sopravvivenza proprio negli ultimi mesi del suo mandato, con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro: il 15 giugno 1978, poco più di un mese dopo il ritrovamento del corpo dello statista democristiano, Leone si dimise, travolto dallo scandalo Lockheed (venti anni dopo emergerà l'insussistenza delle accuse rivoltegli allora). La risposta delle istituzioni, messe a dura prova dai recenti eventi, fu l'elezione al Colle di uno dei presidenti più amati di sempre, Sandro Pertini, socialista e antifascista della prima ora. Fu eletto l'8 luglio 1978, al sedicesimo scrutinio, con 832 voti su 995: il consenso più alto nella storia della Repubblica. Giurando, Pertini ricordava che "se il nostro Paese è riuscito a risalire dall'abisso in cui fu gettato dalla dittatura fascista e da una folle guerra, lo si deve anche, e soprattutto, all'unità nazionale realizzata allora da tutte le forze democratiche", assicurando: "Da oggi io cesserò di essere uomo di parte. Intendo solo essere il presidente della Repubblica di tutti gli italiani". E lo fu davvero, anche in quell'indimenticabile notte d'estate dell'82 che vide l'Italia di Bearzot salire sul tetto del mondo. Sempre d'estate, il 24 giugno 1985 (al primo scrutinio con 752 voti su 977), venne eletto Francesco Cossiga: "Nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione" si gioca "gran parte della credibilità delle nostre istituzioni democratiche" sottolineava il neo presidente nel discorso di insediamento, con riferimento anche al tema della corruzione e alla questione morale. Celebre per le sue “picconate”, visse da presidente il tramonto dell’ordine mondiale basato sulla contrapposizione dei blocchi, con il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss. Il 28 aprile 1992, quando rassegnava le sue dimissioni, da qualche mese aveva preso il via l'inchiesta Mani Pulite che spazzò via il sistema dei partiti che fino ad allora aveva animato la vita repubblicana, e questa "credibilità" era arrivata forse ai minimi termini. La strage mafiosa di Capaci del 23 maggio 1992 portò alla rapida elezione, due giorni dopo, di Oscar Luigi Scalfaro: "Grandi problemi incombono - spiegava nel suo discorso di insediamento - la riforma istituzionale, la riforma elettorale, le questioni inerenti al grave disavanzo nel bilancio dello Stato, la criminalità aggressiva e sanguinaria, il traffico di droghe e di armi, la delicata questione morale". Scalfaro accompagnò il Paese dal Colle nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, fino quasi alla fine del millennio. Il 13 maggio del 1999 Carlo Azeglio Ciampi - ex banchiere centrale ed ex presidente del Consiglio - venne eletto, in prima votazione, decimo presidente della Repubblica. Nel suo discorso di insediamento, Ciampi espresse l'urgenza delle riforme istituzionali ("il senso dell'unità nazionale ci deve guidare nel compito primario del rafforzamento del nostro sistema politico") ma si concentrò anche sull'avvento della moneta unica europea, che "ci impone di far sì che l'economia italiana risponda sempre più alle caratteristiche del modello di sviluppo europeo che insieme con gli altri paesi dell'Unione stiamo disegnando". A raccogliere queste sfide, sette anni dopo, fu Giorgio Napolitano, primo presidente della Repubblica di estrazione comunista: fu eletto il 10 maggio 2006 con 543 voti. Sono gli anni in cui, tra alterne fortune, il bipolarismo faticava a radicarsi e a garantire stabilità: "E' venuto il tempo della maturità per la democrazia dell'alternanza anche in Italia - disse Napolitano nel suo giuramento - Il reciproco riconoscimento, rispetto ed ascolto tra gli opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità in Parlamento e nelle altre Assemblee elettive, l'individuare i temi di necessaria e possibile - limpida - convergenza, nell'interesse generale possono non già mettere in forse, ma, al contrario, rafforzare in modo decisivo il nuovo corso della vita politica ed istituzionale avviatosi con la riforma del 1993 e le elezioni del 1994". Il 20 aprile 2013, con 738 voti, dopo cinque votazioni con esito nullo, gli venne affidato un secondo mandato: "E' un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze: e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla mia" disse Napolitano nel suo secondo giuramento, rispondendo a "un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell'inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell'elezione del Capo dello Stato. Di qui l'appello che ho ritenuto di non poter declinare - per quanto potesse costarmi l'accoglierlo - mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese". Un bis inedito allora nella storia repubblicana, ma che come abbiamo visto in questi giorni non sarebbe stato l'unico. La stessa sorte tocca ora anche a Sergio Mattarella, eletto per la prima volta alla carica più alta dello Stato il 31 gennaio 2015, al quarto scrutinio con 665 voti. In occasione del primo giuramento, l'ex giudice costituzionale specificò in merito al suo ruolo che "l'arbitro deve essere - e sarà - imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza". Ora, dopo aver tenuto autorevolmente la rotta anche nella tempesta della pandemia, Mattarella si appresta a un secondo mandato. Ogni capo dello Stato e ogni giuramento è figlio del proprio tempo, certo, ma tra ricostruzioni necessarie e urgenti, riforme ineludibili, appelli all'unità nazionale e al dialogo tra le forze politiche, richiami all'importanza dell'Europa e alla valorizzazione della cultura e della scienza c'è sempre qualcosa di attuale nel leggere questi vecchi discorsi. Come diceva Mark Twain, "la Storia non si ripete, ma fa rima". (Di Roberto Calabria - NoveColonneATG))