LA FEDE PER SAN GIUSEPPE A CASTELVETRANO
Le feste religiose, nei tempi passati rappresentavano l'unico divertimento popolare esistente; infatti, si viveva sempre nell'attesa di esse per pura fede religiosa, ma anche per vestirsi con l’abito della festa,
per far notare in paese alla gente che la figliola, ormai cresciuta, era pronta al matrimonio, per fare una ricca mangiata e per godersi gli spettacoli di piazza. La vita moderna offre tanti svaghi, divertimenti, luoghi d’incontri fra giovani e molte di queste feste vanno scomparendo o sono poco seguite della popolazione, mentre la fede in Dio lascia a desiderare. La devozione per tutta la Sacra Famiglia e per San Giuseppe in particolare, come protettore dei falegnami, delle ragazze nubili e degli orfani. è stata sempre sentita da tutta la popolazione. Storicamente è noto come nel 1030 i Benedettini per primi celebrarono la ricorrenza del culto di San Giuseppe. In seguito furono “I Servi di Maria” nel 1324 e i Francescani nel 1399. La prima chiesa dedicata a San Giuseppe sorse nel 1129 a Bologna. Nel 1479 il Papa Sisto IV Lo inserì nel calendario per il giorno 19 marzo. Pio IX l’otto dicembre 1870 proclamò San Giuseppe Patrono universale della Chiesa Cattolica. Nella Valle del Belìce la devozione per San Giuseppe inizia nel XVIII secolo. Ma, come avvenne per molte ricorrenze cristiane, questa festività affonda le proprie radici nelle celebrazioni di riti di origine pagana, per l’arrivo della primavera e per propiziare un buon raccolto. Riti legati al culto di Demetra prima e di Cerere poi, entrambe divinità delle messi, che in Trinacria, per secoli granaio d’Italia, furono particolarmente venerate. Tradizioni simili le troviamo presso gli antichi romani, durante i festeggiamenti per Persefone e Kore, metafora del ritorno della natura, festeggiate durante i Cerealia. In occasione di queste feste agricole, folle festose usavano lanciare noci, grano e dolci sulla processione in onore della Dea. Così, in onore della Madre del grano venivano offerti cereali e pani, in una tradizione che poi fu assorbita da varie festività cristiane, come quella di San Giuseppe. La confraternita dei falegnami di Castelvetrano sin dalle origini si è incaricata della Sua festa. Da una donna anziana ho appreso, ma ne ho avuta conferma da altre fonti, che ad iniziare dal 1° mercoledì dopo l'Epifania e fino alla ricorrenza, si festeggiava il Santo in chiesa con "li mercuri sulenni" e "li mercuri vasci". I primi, finanziati con i soldi raccolti fra i fedeli, con funzioni più solenni; i secondi, celebrati gratuitamente dalla chiesa, erano meno appariscenti. In quelle occasioni si cantava "lu viaggiu di San Giuseppi" con accompagnamento d’organo e violino e si recitava "lu rusariu di San Giuseppi". Durante la funzione dei “mercuri vasci” si celebrava anche “lo sposalizio di San Giuseppe”: Seguendo la tradizione Giuseppe, già in età avanzata, si unì ad altri celibi della Palestina, tutti discendenti di Davide, richiamati da alcuni banditori provenienti da Gerusalemme. Il sacerdote Zaccaria aveva infatti ordinato che venissero convocati tutti i figli di stirpe reale per sposare la giovane Maria, futura madre di Gesù. Per indicazione divina, questi celibi avrebbero condotto all’altare il loro bastone, Dio stesso ne avrebbe poi fatto fiorire uno, scegliendo così il prescelto. Secondo la tradizione cristiana, solo quello di Giuseppe, era in fiore e da esso uscì una colomba che si pose sul suo capo. Giuseppe si schermì facendo presente la differenza d’età, ma il sacerdote lo ammonì a non disubbidire alla volontà di Dio. Allora questi, pieno di timore, prese Maria in custodia nella propria casa. Alla fine della funzione, avveniva lo sparo dei “mascuna” (mortaretti), “tammurinata” e “scampaniata” (suono di tamburi e di campane), tre manifestazioni che hanno da sempre accompagnato le principali feste religiose. Si tratta d’espressioni esteriori barocche che fanno da contorno alle ricorrenze festive religiose, molto sentite dalla popolazione. In merito un proverbio antico dice: -“Nun c’è festa senza parrinu e mancu senza tammurinu”-. Ma San Giuseppe, facente parte della Sacra Famiglia veniva venerato anche in occasione del Santo Natale. In onore di San Giuseppe, mia madre, davanti al presepe recitava “lu rusariu di San Giuseppi” e cantava “lu viaggiu di San Giuseppi” Dei due brani conservo le parole ed il motivo (che ho trascritto in musica). Prima del terremoto del 1968, la ricorrenza si festeggiava nei giorni 17, 18 e 19 Marzo. Nei primi due giorni, in occasione delle messe e celebrazioni rituali religiose in chiesa, la gente portava fiori al Santo, che veniva posto su un altare molto in alto, con una scalinata piena di candele accese. La chiesa era “apparata” (addobbata) con lunghi drappi colorati ornati con fregi e angeli dorati, tutto un gusto barocco, molto usato durante le festività religiose più importanti. “L’apparaturi”, era un mestiere per quegli anni molto singolare. In questi due giorni, nella Via V. Emanuele (la strata di la cursa) si assisteva alle corse dei cavalli, molto seguita dalla popolazione. Nel pomeriggio del giorno 19 iniziava la processione del Santo, che sfilava per le vie della città. Alla processione partecipavano i “fratelli” della confraternita dei falegnami e bottai, che portavano delle aste sormontate dalla figura di San Giuseppe; essi erano vestiti tutti di bianco, con saio, cappuccio e visiera. Come in molte altre manifestazioni religiose, anche in questo caso c’erano “li virgineddi”, bambini vestiti da angeli che portavano i “gigli bianchi di San Giuseppe”. Il corteo era preceduto dai “tammurinara” e seguiti dalla banda musicale. Alcuni fedeli, che avevano fatto promessa al Santo per ricevere grazie camminavano a piedi scalzi e portavano i ceri accesi in mano. Il Santo veniva posto sul carro ornato di fiori e piante verdi. Durante il percorso, come avveniva nelle processioni principali, i fedeli preparavano “lu posu” (una sosta), con un altarino coperto da una tovaglia bianca ricamata, un’immagine sacra e tanti fiori e vasi di foglie d’ombra ai lati; durante questa sosta il prete benediceva i presenti. Al rientro della processione, verso la mezzanotte, si sparava “lu iocu di focu” (i fuochi d’artificio). Come segno di rispetto, per le strade dove passava la processione, la gente ornava i balconi, le finestre e finanche i bordi delle terrazze, con tovaglie da tavola o copriletto ricamati o dipinti. Dalla data del terremoto del 1968, la processione non si era più effettuata; da alcuni anni è ricominciata questa tradizione interrotta. VITO MARINO