LA ZABBARA E LA LIAMA La "Zabbara" (agave): è una pianta grassa con foglie lunghe e carnose provviste di spine molto pungenti ai lati, più un aculeo alla sommità; resiste benissimo alle forti siccità e si adatta anche ai terreni rocciosi.
La pianta, quando arriva alla maturità, emette un'infiorescenza a pannocchia su un'asta lunga, che conferisce al paesaggio siciliano l'aspetto caratteristico mediterraneo, quindi muore. Attorno alla vecchia pianta restano, però, tante piantine, che cresceranno fino a diventare adulte. Questa pianta cresce allo stato selvatico nelle zone incolte; nelle campagne si usa come siepe per delimitare i confini delle proprietà. Una volta tali confini potevano essere delimitati da muri a secco costruiti con pietre non squadrate, ma sistemate così bene da bravi artigiani, da resistere al tempo ed alle intemperie. Una volta, anche i feudi incolti rocciosi, dove si praticava la pastorizia o la raccolta delle palme nane, erano recintati da agave o muri a secco. Allora, volendo bonificare questi terreni, si potevano coltivare mandorli, fichidindia o carrubi, che con le loro radici riuscivano a frantumare e “digerire” chimicamente le rocce più dure. La “zabbara” oggi è diventata una pianta inutile, mentre durante la civiltà contadina era molto ricercata, anzi, direi, che era una pianta indispensabile. Dalle foglie, infatti, opportunamente lavorate, si ricavavano filamenti molto resistenti (sisal) "lu zabbarinu", con cui si otteneva spago, corde di varie misure e la “curdina pi stenniri” per la massaia. Per ottenere la fibra le foglie si lasciavano macerare in acqua, quindi si battevano con un mazzuolo di legno per liberare la sostanza gelatinosa, quindi si passavano in spazzole fatte di chiodi . I filamenti più lunghi si usavano per fare le corde, mentre i filamenti più corti, impastati col gesso, erano utilizzati dal gessaio. Con lo spago si riempivano "li funna di zabbarinu" (il ripiano per sedersi) delle sedie. Inoltre, con le cordicelle opportunamente intrecciate a scacchiera, si ottenevano "li rituna" per trasportare la paglia (vedi argomento specifico). Dalle foglie, tagliate a strisce per il lungo e fatte essiccare al sole, si ricavava "la liama", una corda primitiva, rudimentale, ma resistentissima, che serviva per legare "li mazza di ligna", cioè le fascine di legna da ardere e "li regni" (i covoni del grano); per renderla più morbida, si metteva a bagno in acqua per qualche ora prima di servirsene. L'asta dell'infiorescenza, una volta essiccata, era utilizzata come trave per sostenere “la pinnata” (la tettoia leggera), fatta di graticci di canne, per l'ombra. Tre aste legate sulla parte superiore, a forma di capanna servivano da sostegno per "lu crivu d'occhiu", il setaccio per setacciare il grano sul “postu d’aria” (l'aia). Sulla spiaggia di Tre Fontane, con dette aste, i villeggianti si costruivano le “logge” per la villeggiature estiva (vedi argomento “li bagni a Selinunti”). L'infiorescenza si dava come mangime ai maiali. Oggi, questa pianta, che appartiene alla famiglia degli aloe, è in via d’estinzione, tuttavia rimane ancora come pianta ornamentale, specialmente la varietà bicolore verde e gialla. Ma la “liama” che significa legame, legaccio si può ottenere con la “ddisa” (ampelodesmo), una pianta graminacea dallo stelo filiforme resistentissimo, che cresce in terreni aridi incolti. Era usata dai contadini per “mmasari” (legare - invasare) la vigna. La legatura avveniva con la torsione delle estremità.
FIERA DEL BESTIAME
Durante la civiltà contadina tutti avevano bisogno degli animali da soma (cavallo, asino, mulo, bardotto) o del bue, per ausilio nei lavori più pesanti e per tirare il carretto o l’aratro. Anche i nobili, per spostarsi a cavallo o sulla carrozza avevano bisogno del cavallo Fiorente era l’allevamento di pecore e di bovini, mentre in tutti i cortili o dentro i magazzini non mancavano mai le galline, i conigli, la capra, e spesso anche il maialetto. Per fornire le forti richieste, in ogni paese c’era sempre una fiera di bestiame. A Castelvetrano, in Piazza Dante, “a li cumuna” (salita per Piazza Bertani, allora non esisteva ancora l’edificio scolastico), fino agli anni ’60 circa, ogni fine mese c’era la fiera del bestiame; ma anche alla fiera della Tagliata, si negoziavano animali. Alla fiera bisognava essere esperti di animali, perché si potevano avere delle fregature. Il mercante di animali per ingannare il probabile compratore usava tanti accorgimenti: puliva la bestia accuratamente per rendergli il pelo lucido (simbolo di buona salute), lo "appruvinnava" bene (gli dava da mangiare orzo e avena), aggiungeva del sale alla biada e lo faceva bere in abbondanza per renderlo apparentemente più pieno. Ma, come dicono i proverbi: "a la squagghiata di la nivi si virinu li pirtusa" (sciolta la neve si vedono i buchi) oppure "a lunga cursa si viri lu giannettu" (nella lunga corsa si vede il cavallo da corsa), quando l'animale si metteva alla prova del duro lavoro giornaliero, spuntavano fuori i grossi difetti. Questo era il classico animale "ngannalafera", cioè che in fiera ingannava anche il compratore più esperto. (VITO MARINO foto in alto)