Il Corriere della Sera pubblica con grande evidenza una corrispondenza da Brisbane sullo sfruttamento dei giovani che entrano in Australia con un visto di vacanze-lavoro. Si tratta di vicende riguardanti non pochi dei circa 150.000 giovani che nel 2014 hanno usufruito di questo particolare visto, tra i quali circa 15.000 italiani, vicende portate alla luce da un noto programma televisivo australiano. La decorrenza del visto, come è noto, è di un anno e può essere prorogata di un altro anno a condizione che il lavoro si svolga per almeno tre mesi in zone rurali abbastanza disagiate. Nel programma si parla di prevaricazioni riguardanti l’orario e le condizioni di lavoro, di inadempienze e sfruttamento salariali e addirittura di abusi anche di carattere personale, resi possibili dalla necessità di ottenere un’attestazione delle prestazioni lavorative effettuate in zone rurali ai fini del prolungamento della permanenza nel Paese. Nella stessa corrispondenza si riporta la testimonianza della presidente del Comites di Brisbane che afferma di avere ricevuto molte denunce dello stesso tenore e di avere constatato la reticenza degli interessati a denunciare l’accaduto, a causa del timore di dover lasciare il Paese. Le autorità dello Stato del Victoria hanno aperto un’inchiesta sul caso e quelle federali hanno deciso che la permanenza “volontaria” nelle farm non sarà più una condizione per il rinnovo del visto vacanze-lavoro. Diamo atto alle autorità australiane, dunque, di una capacità di reazione pronta e ci auguriamo efficace. Una decisione in linea con la richiesta formulata dalle rappresentanze di base. Insieme alla esigenza di una maggiore informazione al fine di inquadrare il visto vacanze lavoro nel filone delle opportunità formative, di studio e lavoro, e non tra le scelte di vita legate alle migrazioni, per le quali esistono prassi, categorie di visti e procedure chiarissimi! Si pone, tuttavia, per noi italiani, che esprimiamo uno dei maggiori contingenti delle richieste di visti in Australia, il problema di cosa le nostre rappresentanze vogliano e possano fare per seguire, sostenere e tutelare i nuovi emigranti che lasciano il Paese in cerca del lavoro che non trovano in Patria. Si tratta di una questione che evidentemente trascende le vicende portate alla luce in Australia e che riguarda la maggior parte dei Paesi verso i quali si dirigono i protagonisti delle nuove mobilità. A differenza di altre fasi emigratorie, quando gli accordi bilaterali incanalavano i flussi entro regole abbastanza definite, questa nuova emigrazione in larga misura si svolge in assenza dell’intervento pubblico e di sostegni operativi. Eppure, per quanto riguarda i giovani, il fenomeno ha raggiunto dimensioni allarmanti, che si attestano oltre la soglia delle centomila unità ufficialmente censite, nei fatti più alta almeno di un terzo. I consolati, ridotti all’osso e oberati da impegni crescenti, si limitano a raccogliere richieste e proteste, a cose fatte. Gli stessi COMITES, dove ancora ci sono, intervengono per dare indicazioni e consigli se sono contattati dai nuovi arrivati, non avendo poteri e risorse per iniziative autonome. Il vero problema è dunque questo: come assumere urgentemente le nuove emigrazioni nelle politiche pubbliche sia dello Stato che delle Regioni. Solo a titolo di esempio, si potrebbero tentare alcune soluzioni, come creare un sistema di coordinamento dell’attività dei soggetti che operano nei luoghi di destinazione, (i patronati, le associazioni, gli istituti di rappresentanza), con l’obiettivo di costituire una rete di riferimento e di servizio; attivare nei consolati corsie preferenziali di contatto e dialogo con i nuovi migranti; organizzare un sistema permanente di informazione, articolato per area e per paese e istituire un portale pubblico interattivo a loro destinato, nel quale per ciascuna area indicare le regole di ingresso e di permanenza, le qualifiche professionali richieste, e altre cose di diretto interesse; aprire tavoli di collaborazione con le autorità dei paesi nei quali si dirigono i flussi più consistenti, e così via. Insomma, non possiamo attendere le corrispondenze dall’Australia o da qualche altra parte del mondo per giustificare un nostro ritardo e allontanare delle responsabilità precise di intervento che al nostro sistema pubblico toccano qui e ora. On. Marco Fedi