Comunicazione di Rodolfo Ricci al convegno del PD presso la festa nazionale dell’Unità – Milano 6 settembre 2015
Vi ringrazio per l’invito. Il mio intervento è strutturato in due parti: la prima, quella che riguarda il potenziale costituito dalle nuove generazioni nate e cresciute all’interno dell’emigrazione consolidatasi nella seconda metà del secolo scorso, e la seconda, che riguarda la nuova emigrazione in uscita dall’Italia in questi ultimi anni caratterizzati dalla crisi che stiamo vivendo. Per quanto riguarda il primo tema, mi limito a ricordare che fin dal 1988 (cioè 27 anni fa), in occasione della seconda conferenza nazionale dell’emigrazione, erano già emerse con chiarezza tutte le potenzialità legate alla presenza di nuove generazioni di italiani nel mondo portatori di bilinguismo e di competenze biculturali che costituivano un’occasione, da una parte, per superare la posizione di marginalità in cui versavano ancora le comunità emigrate all’interno dei paesi di accoglienza e, dall’altra, per inaugurare un nuovo corso potenzialmente molto proficuo nelle relazioni tra l’Italia e le proprie comunità, in un momento di incipiente globalizzazione dell’economia. Ciò fu definito come “risorsa emigrazione” e, sul piano politico e istituzionale, determinò il passaggio da interventi di natura assistenziale a interventi a carattere progettuale, che si intendevano come investimenti in questa risorsa. Questo approccio era il risultato della riflessione e dell’azione di importanti reti associative e centri di servizio dell’emigrazione (il mondo dell’impresa ci arrivò molto più tardi) che, impegnate nel sostegno ai processi di integrazione delle nuove generazioni, si resero conto che i fattori di bilinguismo e biculturalità, ormai ampiamente presenti, potevano consentire di emancipare i progetti di vita dei nostri giovani verso nuovi - e meno marginali - settori del mercato del lavoro locale che fossero in relazione con la madrepatria, ad esempio il commercio internazionale, il turismo, le NTI e in generale quegli ambiti professionali che necessitavano di competenze trasversali (e biculturali appunto) diffuse tra le nuove generazioni delle comunità emigrate. La politica acquisì questa prospettiva al punto che nel corso degli anni 90 e fino al 2002 furono varati alcuni interventi a livello centrale (Ministero del Lavoro e MAE) e da parte di molte regioni. Furono tuttavia interventi senza la necessaria continuità, che, se servirono a confermare pienamente le potenzialità presenti, non arrivarono mai a raggiungere la soglia sperata che era quella di ampliare e rendere strutturali gli interventi e gli investimenti verso le nostre collettività, intesi come parte innovativa e di rilievo della nostra politica estera e della nostra politica economica sia centrale che regionale. Fino al 2007 furono realizzate centinaia di azioni sia in Europa che in America Latina e in altre aree che coinvolsero diverse migliaia di giovani; la percentuale di persone che trovavano occupazione al termine degli iter formativi in questo ambito di azioni, risultava essere molto alta già nei primi mesi successivi alla loro conclusione. Ma i soggetti imprenditoriali che assumevano questi giovani furono solo in piccola parte italiani; in grande maggioranza furono aziende straniere. Allo stesso tempo, chi colse con piena consapevolezza che si poteva aprire un capitolo nuovo nelle relazioni con le proprie comunità immigrate, non fu l’Italia, ma piuttosto i paesi di accoglimento, Germania in testa, che, verso la fine degli anni ’90 replicò e moltiplicò questo approccio - nato dalla comunità italiana -, verso le altre comunità presenti nel paese, a partire da quella turca. D’altra parte, era ovvio che accadesse questo, dal momento che tutta la dinamica di cui stiamo parlando rimase confinata ai residui capitoli di spesa riguardanti l’emigrazione, senza mai concepire la possibilità di inserire compiutamente le comunità emigrate nel circuito delle misure rivolte, per esempio, al sostegno all’internazionalizzazione. Il ministero dell’economia, quello della cultura, quello della pubblica istruzione rimasero sempre ai margini di questa riflessione. E come si sa non si va a nozze con i fichi secchi. La conferenza del 2000, riconfermando teoricamente l’approccio di emigrazione come risorsa, non sortì purtroppo alcun significativo esito di ampliamento e diffusione di queste misure. Ho portato questo esempio specifico che nei suoi esiti può essere ovviamente allargato alla questione della politica di promozione linguistica, culturale, turistica, ecc., tutti ambiti che, a partire dal 2007-2008, hanno subito progressivi tagli di spesa fino alla loro completa atrofizzazione. Vale la pena ricordare che su questa linea di importante sperimentazione attuata dal Ministero del Lavoro attraverso il programma di “formazione e retizzazione degli italiani residenti in paesi non UE”, vi sarebbero circa 30 milioni di residui a suo tempo impegnati e mai spesi che forse potrebbero essere recuperati e usati per riaprire qualche spazio di attività. Vale la pena ricordare, en passant, che lo stesso processo si è registrato sul versante immigrazione, dove, a parte rari casi, anziché tentare una valorizzazione delle relazioni con le nuove generazioni delle comunità terzomondiali immigrate nel nostro paese (in funzione di importanti opportunità di cooperazione con le aree di provenienza che avrebbero potuto assumere valenza perfino geopolitica), ci troviamo di fronte ad un quadro abbastanza desolante di generale sottooccupazione o di supersfruttamento di chi arriva e con l’incapacità di fornire risposte adeguate alle sempre più gravi urgenze ed emergenze che abbiamo di fronte. La qualità – pessima - dell’attuale dibattito politico sull’immigrazione ne costituisce un effetto. In questo senso si può dire che come in altri casi, l’occasione di un rapporto con le nuove generazioni della nostra emigrazione sia stata una delle tante occasioni perdute. Le ultimissime generazioni prenderanno probabilmente altre vie per relazionarsi all’Italia o saranno semplicemente oriunde, italiche, secondo la definizione di Piero Bassetti. Di esse si potrà dire “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemos” (la rosa che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi). Occasioni perdute determinate dall’incapacità strutturale del nostro paese, di valorizzare il fattore umano, il cosiddetto capitale umano, o, se si vuole, il lavoro; cosa aggravata in questi anni di crisi dalla subalternità ideologica verso riforme finalizzate alla libera e incontrastata dinamica dei mercati, rispetto ad interventi di programmazione e quindi alla funzione politica in sè. Anzi, si può dire che oggi alla politica è richiesto essenzialmente di astenersi il più possibile dalla presunzione di orientare e di programmare. In ciò si avvererebbe la sua modernità… Mentre la funzione di programmazione, tecnologicamente asintotale, è diventata riserva e monopolio del grande capitale transnazionale e di quello finanziario. Non mi soffermo sugli effetti che dal mio punto di vista sono abbastanza evidenti e vengo quindi al secondo punto, quello riguardante i nuovi flussi emigratori, che a mio parere, confermano il rischio paventato da molti, che si stia procedendo a grandi passi verso la definizione di una nuova divisione internazionale del lavoro nell’ambito della quale al nostro paese (e a tutto il sud Europa) è riservato un posto di second’ordine. Il recente rapporto SVIMEZ, è, da questo punto di vista abbastanza impressionante. In mancanza di seri interventi in controtendenza, il meridione del nostro paese si accinge a sprofondare in una dimensione di permanente sottosviluppo e di desertificazione non solo industriale ed economica, ma anche demografica. I dati Aire e Istat confermano che l’emigrazione giovanile verso l’estero è in rapida crescita e non solo dal sud, anzi, quantitativamente, più dal centro-nord. Tutti ormai convengono sul fatto che questi flussi sono decisamente sottostimati rispetto alla loro effettiva dimensione che comincia ad avvicinarsi a quella degli ultimi anni ’60, quando ci trovavamo ancora nell’epoca dell’emigrazione di massa. Dal punto di vista della rilevazione di questi dati, visto che siamo in Europa, dovremmo cominciare a comparare i dati Istat con quelli dei diversi paesi metà di emigrazione: verificheremmo con facilità che gli arrivi di nostri connazionali registrati dalle autorità di Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Svizzera, sono fino a 4 volte superiori a quelli Istat che registrano le cancellazioni di residenza nei rispettivi comuni. Ciò rende un quadro di riferimento ben diverso da quello su cui si continua a ragionare. La caratteristica peculiare di questa nuova emigrazione è che riguarda prevalentemente persone con alti livelli di scolarizzazione e di formazione universitaria. Che è un’emigrazione non organizzata ma lasciata al corso naturale degli eventi. Ricorsiva e al seguito delle variazioni congiunturali nei diversi paesi, che assomiglia per certi versi ai movimenti continui dei lavoratori americani negli anni della grande depressione. L’altra importante novità è che essa si produce in un contesto di forte contrazione demografica nell’intera Europa ma in particolar modo in Italia, al contrario di quanto avveniva fino agli anni ’70 quando costituivamo un grande serbatoio di natalità. Quest’ultima caratteristica è di fondamentale importanza per “misurare” gli effetti di questi nuovi flussi nei territori di partenza e in quelli di arrivo. Allo stesso tempo, e proprio a causa di questa contrazione demografica, ci troviamo di fronte a politiche di incentivazione dell’emigrazione più o meno esplicite da parte di alcuni importanti paesi ed aree (nord Europa, Germania in particolare, Australia, Canada, altri paesi emergenti). E’ cioè in atto un accaparramento di capitale umano qualificato che notoriamente costituisce il fattore fondamentale dello sviluppo assieme alla disponibilità di capitali e tecnologie e di risorse naturali. Il fatto che la nuova emigrazione, in mancanza di una seria politica di accompagnamento, costituisca un oggettiva riduzione di opportunità per i paesi che la alimentano, è probabilmente il motivo per cui se ne parla ancora poco. Parlarne significherebbe ammettere che ci troviamo in una situazione di rinuncia o di fallimento economico-politico. Anche se l’attuale vicedirettore del Corriere della Sera, Federico Fubini, ha riproposto recentemente un ragionamento analogo al nostro e altrettanto ha fatto qualche mese fa Romano Prodi, sostenendo che “non possiamo continuare a formare specialisti per aumentare il progresso di altri paesi”, pare tuttavia che la cosa risulti di interesse marginale. E’ in atto, forse, una delle tante pratiche di depistaggio culturale tipiche di questo paese, cosa che aggrava anche la possibilità di valutare più serenamente la questione immigrazione: perché parlare dell’emergenza immigrazione senza mai accennare al fatto che gli espatrii di italiani sono ormai superiori agli ingressi di stranieri per lavoro ? E come definire una politica che nel suo profilarsi come altamente innovativa in quanto taglia tutti i presunti nodi gordiani ritenuti fonte di inefficienza, lascia allo stesso tempo defluire fuori dai suoi confini centinaia di migliaia di giovani qualificati ? Vi è un nesso, o no, tra efficienza di sistema e valorizzazione del capitale umano ? E come possiamo noi (più o meno addetti ai lavori) continuare a discutere di valorizzare l’emigrazione ai fini dello sviluppo del paese, mentre centinaia di migliaia di giovani vengono direttamente o indirettamente incentivati ad andarsene ? Si dice che la libera circolazione costituisca un valore in sé, in particolare rispetto all’area continentale europea, ma purtroppo questi flussi sono a senso unico e il volano che si è messo in moto non può che amplificare questa tendenza che procede da sud verso nord. Si afferma che il paese debba modernizzarsi per far affluire investimenti esteri, mentre parallelamente perdiamo un fondamentale patrimonio umano: secondo Federico Fubini abbiamo già perso 23 miliardi di investimenti in capitale umano a seguito dei flussi verificatesi tra il 2008 e il 2014, ma il suo calcolo si riferisce solo ai costi pubblici di scolarizzazione ed educazione (basato su parametri di spese medie in ambito OCSE) e sui dati Istat che lui stesso afferma essere sottostimati; Fubini calcola un deflusso netto in questi anni di soli 150.000 giovani; ma se invece ipotizziamo, tenendoci molto bassi, che i giovani andati all’estero in questo periodo siano almeno il doppio di quelli rilevati dalle statistiche nazionali (si tratta come già detto di una stima minimale perché comparando i dati di ingresso di italiani registrati dalle autorità di Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e anche Australia, abbiamo numeri che sono fino a 4 volte maggiori: gli ultimi recentissimi dati ci dicono che nel 2014 la Germania ha registrato 60.000 arrivi di italiani e la Gran Bretagna 57.600; a fronte di dati Aire che indicavano meno di 14.000 per ciascuno di questi due paesi), avremmo già perso almeno 46 miliardi; e se mettiamo in conto anche gli investimenti privati delle famiglie per la crescita dei giovani, avremmo già perso circa 100 miliardi di patrimonio in capitale umano. Una cifra che equivale a circa il 6,5% del Pil del paese. Ovviamente questo flusso di espatrii si traduce anche in riduzione delle opportunità di crescita anche meramente dal punto di vista dei consumi interni, quindi produce un peggioramento del rapporto Debito/PIL. Né un leggero miglioramento del tasso di disoccupazione può rallegrarci ove assistiamo ad una diminuzione della base di popolazione attiva… Se infine calcoliamo la perdita son solo in termini di “stock di capitale umano”, ma anche in termini di proiezione del Pil nei prossimi anni, dando per acquisito che gran parte di questi giovani non torneranno più in Italia e che produrranno reddito altrove nei 40 anni di loro vita lavorativa, ci priveremmo tendenzialmente, nei prossimi 4 decenni, di un Pil pro-capite variabile tra i 1,5 e i 2 milioni di Euro, calcolando costi del lavoro annuali lordi pro-capite, tra ai 40-50.000 Euro. Vale a dire un totale compreso tra i 400 e i 600 miliardi. Annualmente sarebbero 10-15 miliardi, cioè 0,65-1,0% del PIL attuale. Questo per stare all’ipotesi che siano emigrati solo 300 mila giovani e nell’ipotesi, molto remota, che il flusso si sia già arrestato. Ma i dati riferiti al 2015 ci dicono invece che sta ulteriormente crescendo. Quindi, ci pare davvero controproducente minimizzare, sottacere o ignorare queste cifre: in realtà, la nostra struttura economico-produttiva, il sistema Paese, non appare in grado di valorizzare il fattore produttivo più importante: i nostri giovani. La cosa è alquanto ovvia se si pensa che negli anni della crisi abbiamo già perso quasi il 25% della nostra capacità industriale. E la politica non sembra in grado di modificare questo quadro. Si tratta dunque di un fallimento in corso d’opera, il cui recupero implicherebbe ben altri approcci e misure che non quelli dettati dai vincoli esterni che in questi ultimi 5 anni abbiamo acriticamente assunto, salvo, solo recentemente, lanciare strali contro l’austerità. Cinicamente si potrebbe dire che, visto che ci troviamo in fase di avanzata revisione costituzionale, potrebbe essere colta l’occasione per cambiare anche quell’antiquato principio per cui la Repubblica è fondata sul lavoro. Si potrebbe suggerire un altro fondamento: per esempio il turismo: “Repubblica fondata sul Turismo (estero)”, o sulla produzione di made in Italy del buen vivir, tipo gastronomia e moda. Cose indubbiamente eccellenti, che ci riescono bene da centinaia di anni, ma che proprio per questo non sembrano costituire grandi elementi di innovazione. Il sistema scolastico potrebbe limitarsi, in questo quadro, a sfornare guide turistiche e camerieri. Forse qualcuno sta pensando proprio a questo. Chiudo con un’ultima provocazione: se proprio dobbiamo accingerci ad accettare la crescita di questi nuovi flussi di emigrazione, proviamo almeno ad orientarli verso paesi che non sono nostri diretti concorrenti; magari inventandoci programmi di cooperazione bilaterale con altre aree e paesi dove le competenze dei nostri giovani possano costituire un’occasione di costruzione di relazioni positive per loro e per noi; altrimenti lasciando agire il libero mercato e la libera mobilità delle forze di lavoro, oltre allo spread sui tassi di interesse del debito pubblico finiremo con l’alimentare ulteriori e peggiori differenziali negativi, arricchendo ulteriormente chi è già ricco e contribuendo direttamente all’accelerazione del nostro declino. Infine, se la nuova emigrazione non è un dato congiunturale e continuerà per tutto il decennio in corso, una politica sufficientemente attenta e responsabile dovrebbe darsi da fare almeno per non recidere definitivamente il vincolo che lega ancora questi giovani all’Italia. Possibilmente offrendo loro qualche misura di accompagnamento subito e qualche prospettiva di futuro coinvolgimento in Italia, seppur remota. Ma mi è ben chiaro che con ciò si torna a chiedere la discesa in campo della politica e non l’amministrazione del vincolo esterno sul territorio nazionale. Neanche mi sembra convincente la dissoluzione del patrimonio nazionale della nuova emigrazione nel mare magnum degli italici. Le indicazioni e le prospettive del Prof. Bassetti hanno rilievo rispetto al mondo degli oriundi e degli italofili, in particolare rispetto alla loro elite imprenditoriale globalizzata (come lui stesso ci conferma), ma logica vorrebbe che questo nostro paese debba coglierne qualche vantaggio anche sul suo territorio. Altrimenti, chi guiderà il processo di nuovo Commonwehalt italico? Tra l’altro in una congiuntura che da un decennio non è più di gloriosa globalizzazione, ma piuttosto di incipiente de-globalizzazione, quando non di rapido ritorno ad approcci geopolitici contrastanti tra aree continentali e anche tra singoli paesi, come mostrano gli esiti più recenti della vicenda europea. Dovremmo quindi deciderci: cos’è che vogliamo ? Continuare a lanciare auspici, o impegnarci in una lunga e serrata battaglia culturale e politica - che non può che essere fortemente critica e autocritica- e che non si può continuare a svolgere solo nei nostri asfittici recinti, ma che deve essere in grado di intervenire sulle scelte di fondo della politica di questo paese individuando gli interlocutori più utili. Su questa seconda possibilità credo che possano essere trovati punti importanti di convergenza, nelle rispettive autonomie, con l’intero fronte associativo dell’emigrazione, come ha indicato il dibattito degli stati generali dell’associazionismo dello scorso luglio