Il rapporto dell’INPS presentato martedì scorso ed intitolato “Tre verità su emigrazione, immigrazione e spesa sociale”, al di là della indubbia utilità delle informazioni e dei dati, contiene alcune importanti inesattezze ed omissioni e soprattutto difetta di una visione programmatica per una seria riforma del sistema socio-previdenziale a favore del mondo dei lavoratori migranti. Si ha l’impressione invece che si tratti di un trasandato tentativo, neanche troppo velato, di influenzare l’opinione pubblica (e alla luce dei commenti dei mezzi di informazione il tentativo è senz’altro riuscito) e di indurre conseguentemente le autorità competenti (Governo, Parlamento, Ministeri vari) a ridimensionare il sistema di tutela sociale e previdenziale dei lavoratori emigrati (peraltro senza suggerire adeguate correzioni a quello dei lavoratori immigrati). Partiamo da alcune considerazioni “tecniche” per poi trarne delle riflessioni più generali. Prima inesattezza del Rapporto: al punto 1 intitolato “Social free riding” (??!!) l’Inps, riferendosi ai lavoratori immigrati in Italia che rientrano nel loro Paese senza aver maturato il diritto ad una prestazione autonoma, sostiene che “i nuovi assicurati dal 1° gennaio 1996 possono beneficiare di una pensione di vecchiaia al compimento dell’età di 66 anni anche in deroga ai minimi contributivi”. L’Istituto si dimentica di precisare che in realtà in virtù della normativa attualmente in vigore, per ottenere la pensione di vecchiaia nel sistema contributivo è necessario aver maturato un importo minimo pensionistico con i contributi versati non inferiore a 1,5 l’importo dell’assegno sociale, importo irrealizzabile per la quasi totalità dei lavoratori immigrati rimpatriati (pochi anni di contribuzione e basso montante contributivo), i quali quindi rimarranno senza pensione e perderanno i contributi versati. Questa categoria di immigrati quindi, che nonostante abbiano versato i contributi in Italia non matureranno il diritto a pensione, si aggiungerà a quella di coloro i quali sebbene rientrino nel sistema retributivo o misto, comunque non riusciranno mai a maturare i 20 anni di anzianità contributiva richiesta (molti lavorano in nero) sia che tornino nel loro Paese di origine sia che rimangano in Italia, perdendo così tutti i contributi versati. La soluzione quindi, se l’obiettivo è quello di garantire una pensione anche ai lavoratori migranti che versano i contributi in Italia, è quella di stipulare nuovi accordi bilaterali di sicurezza sociale con i Paesi di immigrazione che consentano il cumulo dei contributi ai fini del diritto ad una pensione, e con la misura della pensione calcolata esclusivamente sui contributi effettivi versati (anche precludendo l’esportabilità delle prestazioni assistenziali) o di restituire i contributi versati, come accadeva prima della Bossi-Fini, a coloro i quali decidono di rientrare nel loro Paese di provenienza. Seconda “amenità”: la “fuga dei pensionati”. Dal 2003 al 2014 sono un totale di 37.000 persone. Fenomeno assolutamente irrisorio sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista economico. Perché enfatizzarlo così tanto? D’altronde l’Inps già paga oltre 400.000 pensioni all’estero (destinate a diminuire progressivamente e non ad aumentare per ragioni fisiologiche). E’ inoltre noto che la pensione è un diritto inalienabile ed appartiene ai singoli pensionati e non allo Stato che la eroga ed è quindi esportabile ovunque si desideri andare a vivere. Sostenere altresì che il fenomeno della “fuga” dei pensionati erode la base imponibile perché molti pensionati ottengono l’esenzione dalla tassazione diretta e non consumano in Italia, non solo sconfessa e vanifica gli oltre 100 accordi di reciprocità contro le doppie imposizioni fiscali stipulati dall’Italia che – seguendo il modello OCSE – stabiliscono il principio dell’imponibilità fiscale del Paese di residenza (forse l’Inps intende rinegoziare tutti gli accordi stipulati dall’Italia?), ma si scontra con l’inarrestabile logica della mobilità internazionale per cui ogni cittadino, anche come turista, spende i propri soldi dove più gli aggrada. Infine il terzo punto, quello più pregno di implicazioni socio-economiche ed in fondo il vero presupposto della presentazione del Rapporto: l’intenzione cioè di smantellare lo stato sociale a favore dell’emigrazione italiana. E’ vero che prima del 1991, e cioè da quando lo Stato italiano ha iniziato ad introdurre provvedimenti restrittivi sull’esportabilità delle prestazioni assistenziali, si erogavano all’estero, forse con eccessiva generosità, prestazioni sociali senza considerare né il reddito complessivo né l’entità della contribuzione – a volte anche di un solo anno figurativo – fatta valere dai nostri emigrati in Italia. Ma negli anni le cose sono radicalmente cambiate con grandi risparmi da parte dello Stato italiano: infatti l’integrazione al minimo e le maggiorazioni sociali sono inesportabili nell’ambito dell’Unione Europea, mentre nei Paesi extra-UE l’esportabilità della prima è legata alla presenza di un’anzianità contributiva effettiva di ben 10 anni in Italia e le seconde sono legate ai redditi e agli importi delle pensioni estere dei pensionati italiani, cioè – in altre parole – vengono erogate solo a chi si trova in una situazione di vero disagio economico. E’ innegabile che ci siano anche degli abusi dovuti al fatto che il controllo dei redditi all’estero non è sempre di facile attuazione, ma si tratta comunque di fenomeni limitati e che possono manifestarsi anche in Italia. Insomma l’inesportabilità delle maggiorazioni sociali è per ora solo una proposta dell’INPS e il Governo non si è ancora pronunciato nel merito, ma è evidente che si tratta di un segnale (infelice) che si vuol dare al mondo dell’emigrazione che potrebbe aprire un varco ad un più sistematico attacco ai diritti, anche quelli acquisiti, dei nostri connazionali e contemporaneamente frenare tutta la serie di rivendicazioni che noi eletti all’estero stiamo cercando di portare avanti nel campo sociale, previdenziale, fiscale, a partire dalle pensioni per finire all’IMU. Dobbiamo quindi vigilare affinché ogni tentativo ingiustificato di ridimensionare il sistema di tutela socio-previdenziale dei nostri connazionali residenti all’estero venga respinto. I deputati Marco Fedi e Fabio Porta