BUENOS AIRES\ aise\ - “Il popolo argentino si è recato domenica scorsa alle urne per eleggere un nuovo presidente. Dopo poco più di dodici anni di governi presieduti dai coniugi Kirchner, che hanno segnato
profondamente la società argentina, le limitazioni poste dalla Costituzione alla rielezione permanente dei presidenti, aprono le porte ad un cambiamento che sarà più o meno profondo, a seconda che le elezioni siano vinte dal partito di governo o dall’opposizione. Come è noto, i tre candidati che hanno maggiori possibilità di essere eletti, Mauricio Macri, Sergio Massa o Daniel Scioli (in ordine alfabetica), oltre ad essere discendenti di italiani, sono anche in possesso della cittadinanza italiana”. Le prossime elezioni sono al centro dell’editoriale con cui Marco Basti apre il nuovo numero della “Tribuna italiana” che dirige a Buenos Aires.
“Secondo i risultati delle elezioni primarie del mese di agosto, e la maggior parte dei sondaggi, Scioli e Macri dovrebbero disputare un secondo turno il 22 novembre, a meno che il governatore della Provincia di Buenos Aires non riesca ad ottenere almeno il 45% per cento dei voti oppure ad ottenere il 40% o più, staccando di almeno dieci punti il secondo.
Osservatori, operatori e politici sono impegnati nel capire quali saranno i numeri definitivi di domenica prossima, un risultato che sarà influenzato sicuramente dalle altre elezioni in programma, come quelle di deputati, di parlamentari al Parlamento del Mercosur e quelle locali, alcune determinanti, come quelle nella provincia di Buenos Aires, dove rinnovano autorità provinciali e comunali. La provincia di Buenos Aires “vale” da sola quasi 12 milioni di voti, pari al 37% degli elettori del paese.
La seconda provincia è Cordoba con 2,78 milioni di votanti (8,68%), terza Santa Fe (2,68 milioni di votanti pari all’8,36%) e poi la Città Autonoma di Buenos Aires con più di 2,5 milioni (7,95%) e con oltre un milione di elettori Mendoza, Tucumán ed Entre Ríos. Le analisi cercano di scoprire se e come si arriverà al ballottaggio nel mese di novembre, con quali alleanze e spostamenti di voti, anche se in genere tutti sono consapevoli del fatto che una percentuale importante dei votanti non ha una simpatia marcata per partiti o candidati e decise in base alle proprie convenienze, alle antipatie e agli eventuali “incidenti di percorso” che possano verificarsi durante la campagna elettorale.
Ma più importante sembra di scoprire con precisione quale sarà la realtà del paese, quando la signora Fernández de Kirchner, consegnerà le chiavi della Casa Rosada al suo successore. Infatti, secondo il governo della “presidenta”, la povertà è diminuita, è aumentata l’inclusione sociale, grazie ad una serie di sussidi e incentivi a settori finora esclusi. E inoltre il paese ha praticamente cancellato l’indebitamento con i creditori esteri e con gli organi internazionali del credito (veri e propri sanguisuga nella visione ufficiale). E poi ci sono sufficienti riserve nei caveau della Banca Centrale, l’inflazione è domata, nei primi nove mesi dell’anno ha appena superato il 10% e negli ultimi dodici mesi è stata di poco più del 14%. E la disoccupazione sarebbe del 6,6% e in calo.
Secondo l’opposizione e inchieste di istituti di ricerca provinciali e privati, la realtà sarebbe diversa. In primo luogo perché - sostengono - i numeri dell’Istituto di Statistiche e Censimenti (Indec), l’organo ufficiale che si occupa dei “numeri”, è assolutamente inaffidabile, da quando fu commissariato dal presidente Kirchner. E per questa ragione uno dei primi punti all’ordine del giorno dei progreammi di governo dell’opposizione è proprio la normalizzazione dell’Indec.
E la realtà sarebbe diversa da quella che spiega il governo perché anche se gli indici di povertà ufficiali non si conoscono dal 2013, l’osservatorio del debito sociale dell’Università Cattolica Argentina sostiene che i poveri in Argentina sono oltre il 28% della popolazione. E perché, sostengono, vengono presi come occupate milioni di persone per il fatto che prendono un sussidio di disoccupazione. E perché secondo le ricerche di istituti non governativi, l’inflazione a settembre è stata dell’1,92% e negli ultimi dodici mesi del 25,91% secondo lo studio del gruppo di lavoro dei deputati dell’opposizione.
E poi secondo gli economisti dell’opposizione, le riserve della Banca Centrale sono in gran parte solo “promesse di pagamento” che ha fatto il governo prendendo in prestito i fondi coi quali in teoria l’istituto di emissione dovrebbe garantire il valore della moneta. Oppure i noti swaps cinesi, cioè riserve nella moneta di quel paese, contabilizzati come valuta, che non sono convertibili, ma servono solo per pagare importazioni dal gigante asiatico. Gli opposti punti di vista - ma i dati non sono punti di vista - comprendono praticamente tutti i numeri dell’economia e sembra molto difficile trovare accordi sui numeri.
Ma i disaccordi non riguardano solo i numeri, e le conseguenze dei punti di vista divergenti non sono neutre. Perché molte economie regionali, tante piccole e medie imprese, i produttori agricoli e gli allevatori e anche interi comparti industriali, lamentano la caduta della competitività, con l’impossibilità di esportare. Sono interi settori che arrivano alla fine dell’anno in crisi e con la speranza di un cambiamento rapido che faciliti la ripresa.
Ripresa che tarderà a venire, perché il nuovo governo dovrà affrontare parecchie battaglie, su vari fronti, alcune contrastanti tra di loro e altre, per forza di cose, a scaglioni. Per esempio, come favorire il credito senza restringere le enormi spese dello Stato, che servono in gran parte per pagare sussidi diretti e indiretti. Come rilanciare l’attività e pagare gli arretrati alle imprese per favorire l’export per far entrare valuta pregiata, senza accesso al credito estero e quasi senza riserve disponibili. E poi ci saranno le questioni politiche e istituzionali: il completamento del numero di giudici della Corte Suprema, il proseguimento o meno delle varie riforme al sistema giuridico e alla magistratura; la guerra la narcotraffico e all’insicurezza; le riforme elettorali per evitare il calo di qualità che sta mostrando la democrazia argentina.
Sicuramente nessun presidente potrà avere a disposizione in Parlamento una maggioranza automatica come l’hanno avuta i Kirchner in questi dodici anni. Per cui - e questo è forse un aspetto positivo – dovranno sedersi a cercare accordi tra maggioranza e opposizione, come non avviene da anni.
Al di là di chi vincerà le elezioni, se governo e opposizione riusciranno a dialogare in modo costruttivo, sarebbe il risultato maggiormente positivo di questo cambio della guardia.
Perché i governi degli ultimi dodici anni non hanno mai cercato il dialogo costruttivo con l’opposizione e questa non è stata capace di presentarsi come interlocutore valido. E alla fine è stato costruito un fossato che divide gli argentini. Con noi o contro di noi. Noi e voi. Loro, non noi. Una divisione netta alla quale pochi sono riusciti a sottrarsi. L’augurio è che ci sia una ripresa del dialogo, e che il nuovo presidente possa e voglia costruire un paese per tutti. I tre candidati che hanno le maggiori possibilità di essere eletti alla presidenza, sono discendenti di italiani.
Costruire, creare, fare, sviluppare, crescere. Tutti verbi che hanno coniugato gli emigrati italiani per fare di questa al Plata la loro seconda patria. Con sforzo, con sacrificio, con lavoro, con impegno, con amore. Sarebbe bello che i tre candidati (e tutti i politici di questo paese) si ispirassero ai loro antenati e ai milioni di italiani che contribuirono in modo determinate a costruire l’Argentina, per rilanciare definitivamente questo nostro paese”. (aise) da TRIBUNA ITALIANA