di Carlo Caldarini (*) Il Consiglio europeo cede alle pressioni di Cameron e accetta di limitare i diritti alla previdenza sociale dei lavoratori europei Il Consiglio europeo cede a buona parte delle richieste di David Cameron anche sul tema più delicato, e cioè la volontà di Londra di tagliare fuori dal sistema di welfare britannico i cittadini Ue che si trasferiscono nel Regno Unito. Si cerca così di mettere un argine alla minaccia del cosiddetto “Brexit”, ossia l’abbandono dell’Unione europea da parte del Regno Unito. L’accordo, le cui ipotesi avevano già circolato nei giorni scorsi, è stato ora messo nero su bianco, ma deve essere ancora approvato da tutti i 28 capi di Stato e di governo, il 18 e 19 febbraio prossimi. Quale sarà la posizione del governo italiano? L’offerta che viene fatta a Cameron dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, è un cosiddetto “meccanismo di allerta e salvaguardia che risponda alle situazioni di flussi di lavoratori da altri Stati membri di portata eccezionale per un esteso periodo di tempo”. Un meccanismo che autorizzerebbe ogni Stato membro a limitare l’accesso alla previdenza sociale dei lavoratori di altri paesi dell’Unione, per un periodo di quattro anni dall’inizio dell’occupazione. Questo vorrebbe dire, per fare un esempio, che un lavoratore italiano che ha già lavorato e versato contributi per 15 anni in Italia, e che prosegue poi la propria carriera nel Regno Unito, dove continua a versare contributi, potrebbe non aver diritto ad alcuna indennità di disoccupazione – né dall’Italia né dal Regno Unito – qualora restasse involontariamente senza lavoro durante i primi 4 anni. La logica che si sta affermando, insomma, è quella che era stata maldestramente già annunciata a marzo 2015 dal Vice-Presidente della Commissione europea, il socialdemocratico olandese Frans Timmermans, secondo il quale “l’accesso al mercato del lavoro e alla previdenza sociale non sono la stessa cosa, l’accesso al mercato del lavoro non significa un accesso automatico alla previdenza sociale”. Secondo il documento del Consiglio europeo, questo nuovo meccanismo verrebbe introdotto “senza sacrificare la libertà di circolazione dei lavoratori e senza modificare i trattati”, così è detto ipocritamente nell’introduzione, dove tra l’altro vengono a più riprese evocati “abusi e frodi” da parte dei lavoratori cittadini europei. In realtà, se queste nuove regole venissero accettate dagli Stati membri in occasione del prossimo vertice europeo, queste diventerebbero vincolanti ai sensi del diritto internazionale. L’unico modo per cambiarle sarebbe quello di raggiungere un nuovo consenso tra tutti gli Stati membri, il che consentirebbe al Regno Unito di esercitare il proprio diritto di veto e di bloccare quindi qualsiasi revoca. Secondo Donald Tust, la libertà di circolazione non sarà sacrificata, poiché la limitazione dei diritti sarebbe “graduale”. Ossia, partendo da una completa esclusione iniziale, l’accesso alle prestazioni potrà “gradualmente aumentare per tener conto del crescente collegamento del lavoratore con il mercato del lavoro dello Stato membro ospitante”, secondo un criterio ancora tutto da definire. “L’atto di esecuzione – si legge infatti nel documento – dovrebbe avere una durata limitata e si applicherà ai lavoratori UE di recente ingresso nel mercato del lavoro, nel corso di un periodo di [X] anni, prorogabile per due periodi successivi di [Y] anni e [Z] anni”. I media specializzati europei hanno rilanciato ampiamente la notizia, facendo però una grande confusione – come capita spesso – tra aiuto sociale, ossia sussidi di natura non contributiva, e prestazioni previdenziali, ossia indennità assicurative cui il lavoratore ha diritto in virtù dei contributi sociali versati nelle casse dello Stato. In questo caso, è bene precisarlo, la scure colpirebbe anche le prestazioni contributive di disoccupazione. Verrebbe quindi minato un principio fondamentale della libera circolazione, secondo il quale “I lavoratori migranti non devono subire alcuna riduzione dell’importo delle prestazioni di sicurezza sociale per il solo fatto di aver esercitato il loro diritto alla libera circolazione” (Corte di giustizia dell’Unione europea). Uno Stato membro che voglia usufruire di questo meccanismo, si legge nella bozza di conclusioni, dovrebbe notificare alla Commissione e al Consiglio che esiste una “situazione eccezionale” e che questa sta “colpendo aspetti essenziali del suo sistema di sicurezza sociale” o creando “difficoltà gravi” al mercato del lavoro del Paese o ancora che la situazione sta “mettendo una pressione eccessiva sul corretto funzionamento dei servizi pubblici”. Verificata dalla Commissione questa circostanza, il Consiglio potrà autorizzare lo Stato membro a restringere l’accesso al welfare “per un periodo totale fino a quattro anni”, e dovrà farlo con una votazione a maggioranza qualificata (cioè del 55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% dei cittadini Ue). Il meccanismo si potrebbe applicare soltanto ai nuovi cittadini che fanno ingresso nel Paese e non invece a quelli già residenti. Sappiamo già che il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, sostiene le ragioni di Londra. E se anche i capi di Stato e di governo dovessero dare il via libera al meccanismo, l’esecutivo comunitario sarebbe già pronto a certificare che nel Regno Unito la “situazione eccezionale” esiste già. Secondo la Commissione, si legge infatti in una bozza di dichiarazione dell’esecutivo Ue “le informazioni fornite dal Regno Unito mostrano che il tipo di situazione eccezionale che il proposto meccanismo di salvaguardia intende coprire esiste oggi nel Regno Unito” e dunque questo Stato membro “sarebbe autorizzato a lanciare il meccanismo nella piena aspettativa di ottenere approvazione”. Bruxelles, 3 febbraio 2016 • (Direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa)