Intervista alla console Generale in partenza che resterà nella storia italiana di New York-Natalia Quintavalle è stata per quattro anni la prima donna console Generale d'Italia a New York.
In questa lunga intervista parla degli urgenti problemi del Consolato italiano più importante del mondo affrontando tematiche di grande interesse per la nostra comunità
Natalia Quintavalle nel suo ufficio del Consolato Generale d'Italia, a Park Avenue
di Stefano Vaccara - 10 marzo 2016
Natalia Quintavalle è una donna destinata a rimanere nella storia degli italiani d’America. La diplomatica toscana di Pietrasanta, che termina in questi giorni il mandato di console generale a New York, la città “italiana” più importante fuori d’Italia, è stata infatti la prima donna chiamata a ricoprire questo incarico. Mai Roma aveva inviato, in oltre 150 anni di rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Italia, una donna a guidare il suo più importante Consolato generale all’estero. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Proprio alla vigilia della festa dell’ 8 marzo, al Consolato su Park Avenue c’è stato un affollato ricevimento con la partecipazione della comunità italiana di New York per salutare Quintavalle, che a sua volta ha salutato tutti coloro che sono accorsi per testimoniare l’apprezzamento per il lavoro da lei svolto.
La Voce di New York, la scorsa settimana, è andata a trovare Natalia Quintavalle nel suo ufficio irradiato di luce, quella bella sala circondata da finestre in cima alla palazzina di Park Avenue che lei ha trasformato (dai sui predecessori veniva invece “sprecata” per saletta addetta alle conferenze stampa). In questa lunga intervista, in cui si affronta di tutto e di più sul lavoro di un console a New York, comprese le faccende spinose sul ruolo e funzioni degli organismi rappresentativi degli italiani all’estero, abbiamo cercato di far parlare Quintavalle con meno diplomazia, magari per farle lasciare un messaggio utile per il lavoro del suo successore, il nuovo console generale Francesco Genuardi, atteso in aprile.
Prima donna console generale a New York: cosa ha significato per la percezione dell’Italia in questa metropoli e cosa per lei a livello personale.
“Non è stata una cosa casuale, ci tengo a dirlo. E’ stata una scelta del Ministero degli Esteri che ha deciso che fosse arrivato il momento di mandare delle donne in quelle sedi che fino ad allora erano state appannaggio degli uomini. Quindi scelta voluta anche se arrivata tardissimo. E’ difficile per me distinguere il mio contributo personale da quello professionale. Perché in un Consolato le due cose spesso si mescolano. Tra gli obiettivi che mi erano stati affidati, c’era quello di dare una visibilità all’Italia come sistema. E questo obiettivo, grazie al contributo di tutto il personale del Consolato e anche delle altre istituzioni del sistema Italia, penso che più o meno siamo riusciti a centrarlo. L’Italia quindi a New York si presenta come un sistema con gruppi di persone specializzate in diversi settori ma che comunque lavorano insieme. Questo è stato forse più semplice farlo per me, che rappresentavo una novità, in quanto prima donna a New York. Ce ne sono altri di obiettivi, come il rapporto con la collettività italiana e italoamericana, che credo sia stato facilitato dal fatto di essere una donna, costituivo un motivo di curiosità e interesse, ho percepito un’attenzione che forse in passato non era stata riservata ai miei colleghi”.
La comunità istituzionale di New York si è forse accorta che, anche in Italia, le donne comincino a contare?
“Le istituzioni di New York hanno dato meno segni di sorpresa, qui sono abituati alle istituzioni di altri paesi dove le donne abbondano. La collettività italoamericana si è stupita di più e in senso positivo spero. Per mesi e mesi sono stata presentata come la prima donna console generale d’Italia a New York. Il che la dice lunga sul fatto che non sia una cosa ovvia e scontata”.
Il fatto che nello staff del suo Consolato, tra i vice consoli ci siano state sempre due donne su tre diplomatici, è solo un caso?
“Quando sono arrivata erano già qui due vice consoli donne, le mie colleghe Laura Aghilarre e Lucia Pasqualini. Sulle due vice consoli che sono arrivate dopo, Isabella Periotto e Chiara Saulle, ho ovviamente espresso un parere fortemente positivo per averle. Questo diciamo la dice un po’ lunga su come il lavoro consolare è percepito da parte del ministero degli esteri e della carriera diplomatica…”
Ancora c’è gente che fa confusione tra il lavoro di un Consolato e quello di una ambasciata…
“E’ giusto chiarire. L’ambasciata ha la funzione di rappresentare il paese a livello politico, economico anche, nei confronti del governo USA in questo caso. Quindi dialoga a Washington con la Casa Bianca e il Congresso e con tutte le strutture federali svolge un lavoro essenzialmente politico. I consolati invece prima di tutto fanno un lavoro di assistenza alla collettività. Poi sono anche proiezione dell’immagine dell’Italia. Noi nei confronti dei connazionali svolgiamo tutte le attività amministrative necessarie, siamo il sindaco, il notaio, siamo l’ufficiale di stato civile. E poi forniamo assistenza. Assistenza ai connazionali residenti, che significa che come primo interlocutore questi hanno gli americani. Infatti il grosso del nostro lavoro di assistenza è a favore di tutti quegli italiani di passaggio da New York, che hanno bisogno delle cose più varie. Dall’assistenza quando hanno incidenti…”
Quando si cacciano nei guai…
“Certo, anche quando si mettono nei guai con la giustizia. Che accade anche per ‘crimini’ minori però succede e con una certa frequenza. Quindi c’è tutto questo altro mondo dell’assistenza che vien fatto dai consolati e con particolare dedizione, con poche persone. Il Consolato ha uno staff che si occupa di tutto. Poi c’è ovviamente la parte di servizi che noi siamo tenuti a fare nei confronti degli stranieri che si recano in Italia, per i visti”.
E le risorse? Bastano al Consolato italiano più importante nel mondo? Sono adeguate o devono essere aggiornate?
“Noi siamo sempre bisognosi di avere più risorse. Questo perché i bisogni della collettività residente e non, e i bisogni di rappresentanza dell’Italia all’estero sono crescenti. Non voglio entrare nella polemica più risorse ai consolati in America, o in Australia o chissà dove piuttosto che in Europa. Si va verso una situazione, sempre che l’Europa mantenga il suo cammino di integrazione, in cui effettivamente nei paesi europei diminuisce o perlomeno cambia il ruolo dei consolati. Certo che a New York io avrei voluto avere più risorse umane, ma anche più risorse finanziarie per fare alcune cose che non ho potuto fare o non ho potuto fare bene con le risorse esistenti. E’ vero, siamo sempre in fase di spending review e quindi… Ma c’è un altro problema secondo me che dovrebbe essere risolto e su cui bisognerà che il ministero degli Esteri investa. Ed è l’informatizzazione, in particolare la digitalizzazione degli archivi. Noi abbiamo una grossissima difficoltà per continuare a servire una collettività cresciuta di numero ma soprattutto mobile, che va e viene, con i mezzi ancora del fascicolo conservato in un archivio che resta in condizioni veramente difficili da gestire. Quindi quando dico che vorrei più risorse non lo dico perché vorrei più persone, ma vorrei avere degli strumenti per poter migliorare e anche rendere sufficienti le persone che ci sono e che adesso lavorano tantissimo e lavorano molto di più di quanto sarebbe richiesto se ci fossero invece mezzi informatici adeguati”.
In cima alla lista del rapporto che farà alla Farnesina prima della sua partenza, cosa metterà come consiglio utile per il prossimo console generale?
“Il rapporto non l’ho ancora scritto ma posso confermare che scriverò proprio quello che ho appena detto. Il problema principale è la informatizzazione degli archivi del Consolato”.
Magari anche per servire meglio il voto all’estero…
“Questo è il punto. Come sapete, ce ne sarà uno molto presto. Per evitare che ci siano di nuovo dei numeri ridicoli, è assolutamente indispensabile che tutto questo passi per un sistema informativo e informatizzato integrato”.
Lei durante il suo mandato ha dovuto fare anche le veci del direttore dell’Istituto di Cultura. Su questo giornale abbiamo scritto che era scandaloso che perdessero tutto questo tempo per decidersi sulla scelta del nuovo direttore…
“Indubbiamente bisogna stare attenti ed evitare che un settore importante, come la cultura, sia lasciato, diciamo così, ecco lasciato al caso, o alla presenza di una persona invece di un’altra. Bisogna veramente lavorare molto sul tipo di organizzazione e sulla presenza culturale all’estero. Io credo che, malgrado tutto, l’Italia abbia e conservi il ruolo, come dite voi di VNY, di “rappresentante della bellezza”. Indubbiamente è un ruolo difficile da scalfire in profondità, questa idea della cultura italiana che si ha, soprattutto negli Stati Uniti, e qui a New York si ha tanta cultura italiana. Bisogna proprio mettersi di impegno prima di poter far male alla cultura italiana. Detto questo si può e si deve fare molto meglio. C’è anche un discorso complicato, ma molto interessante, da fare sugli istituti di cultura, perché qualcuno ne mette in dubbio perfino l’idea che debbano esistere, che siano delle duplicazioni di altre strutture. Io credo invece che abbiano un ruolo, fondamentale, quello di presidiare la cultura italiana in un posto cercando di valorizzare tutto quello che di italiano si fa. Naturalmente ci saranno alcuni direttori che saranno interessati più ad alcuni aspetti invece di altri per loro vocazione. Però, in generale, l’Istituto italiano di cultura non deve inventarsi chissà cosa, mega esposizioni d’arte, o concerti ecc. perché non ci sono né le risorse finanziarie né quelle umane. Però quello che può fare è partecipare e sostenere altri eventi”.
Appoggiare eventi ideati da altri?
“Quando io ero alla guida dell’istituto, e non ero sola perché l’ho fatto sempre accompagnata dal vice console Roberto Frangione, il mio numero due che mi ha dato veramente una grandissima mano, ma anche tutto il personale dell’Istituto. Lo abbiamo fatto con il Guggenheim, appoggiandoci ad alcune iniziative loro, lo abbiamo fatto con altri istituti, con il Met, e poi anche con le associazioni culturali italiane che già fanno degli eventi in via del tutto privata, però se sono delle cose belle…”
Stiamo parlando di Casa Italiana NYU, Calandra Institute della CUNY, Italian Academy Columbia University…
“Sì, e includerei anche il CIMA (Center for Italian Modern Art), iniziativa molto originale”.
E il nuovo Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Giorgio Van Straten, si sta dimostrando la persona adatta per poter seguire questa impostazione?
“Van Straten ha delle caratteristiche secondo me ideali per esser qui ora. Noi abbiamo rimesso un po’ a posto tutta la parte amministrativa e burocratica, e anche il building. Io sono veramente felicissima di aver riaperto e ricostituito la biblioteca che era andata dispersa. Van Straten arriva in una situazione decisamente migliorata e lo dico senza falsa modestia rispetto a quando l’ho presa io e ora sta lavorando in quella direzione per garantire che l’Istituto resti sano nella gestione amministrativa e burocratica. Ovviamente Van Straten sta aggiungendo tutta la sua esperienza in campo culturale”.
Lei ha detto che il console deve essere un capitano di una squadra. In questo caso la squadra che dovrebbe rappresentare a New York il sistema paese, la cultura e non solo. Ma poi succede che, per esempio, si vede chiudere la prestigiosa sede di rappresentanza dell’ENIT. Si capisce che in tempi di tagli ai costi, quell’ufficio per la promozione del turismo fosse troppo caro, ma si è avuta l’impressione di un ridimensionamento esagerato. Non solo perché adesso è dentro l’Istituto di cultura, ma perché non ha neanche più un direttore in sede. Un passaggio un po’ rude. Un detto siciliano dice: ci voli ‘u ventu in chiesa, ma no astutari li cannili! (Bene il vento in chiesa, ma non spegnere le candele…)
“Guardi, quando io sono arrivata a New York, era sul tavolo la chiusura dell’ICE“.