di Tonino D’Orazio - La presidente del Brasile, Dilma Rousseff, non è responsabile della crisi economica del suo paese. Crisi che dipende soprattutto dalle difficoltà commerciali della Cina, che hanno provocato un crollo delle materie prime e messo in crisi tutti i paesi con cui ha consistenti scambi commerciali. Dipende anche dall’attacco al mondo di Usa e Arabia Saudita con la svalorizzazione tattica del petrolio. Risultato: scoppiano le economie le cui risorse maggiori sono comunque basate sulla produzione petrolifera, come Russia, Brasile e Venezuela. Sembrano facili prede del capitalismo mondiale, eccetto momentaneamente la Russia. Gli altri, UE compresa, sono proni e avvitati ad una crisi senza fine. Il Partito dei lavoratori, lo stesso dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, può vantarsi di aver tirato fuori, nel primo decennio del secolo, quaranta milioni di persone dalla povertà e di aver garantito a lungo, strutturalmente, una forte crescita economica. Portando il Brasile a settima potenza economica del mondo nel 2014. Oggi sembra non valere più, se, secondo l’Economist, (sic!), il 70% della popolazione brasiliana è contro Rousseff. Non dovrebbe stupire, in realtà una linea costante nella storia, il fatto che in momenti di crisi i lavoratori, stranamente, preferiscono le destre, o perlomeno ne sono ammaliati, fino a regalare loro tutti gli acquisiti sociali, eventualmente conquistati, spesso con lotte e sangue dalle generazioni precedenti. Recentemente, ciò a accaduto in Argentina. La crisi economica sta intaccando anche la Costituzione brasiliana, in cui è prevista la destituzione del presidente in caso di gravi incriminazioni. Si tratta quindi di definire “grave” anche una gestione economica contestabile. Non oso pensare all’Italia dei dieci anni dell’ex Napolitano e di oggi. In pratica Rousseff, sta pagando il prezzo politico della cattiva gestione dell’economia e, sembra, di uno scandalo di corruzione e tangenti nella compagnia petrolifera di stato, la Petrobras, che ha travolto il Partito dei lavoratori (Pt), il partito di sinistra a cui appartiene. Da noi ogni scandalo di corruzione sembra invece, televisivamente, aumentare la quotazione del PD. Mentre le altre accuse, tra cui il tentativo di interferire con le indagini sul caso Petrobras, restano ancora senza prove. I membri del congresso hanno votato, il 18 marzo, per avviare la procedura di messa in stato di accusa del presidente Dilma Rousseff. Da molti considerato un “colpo di stato bianco” o forse di “arancione” memoria, con popolo in piazza. Dopo le immense manifestazioni, sia a sostegno che contro la Roussef, il partito centrista alleato di governo, (PMDB) esce dalla maggioranza, lasciandola sola. Essere al centro significa sempre un passettino a sinistra o un passettino a destra, secondo convenienza, e si rimane sempre nel giusto. Una linea costante e dappertutto nelle democrazie “occidentali” che non viene mai definita voltagabbana o opportunista. L’uomo forte di questo partitino sempre indispensabile, dal 1986, alla formazione di qualsiasi governo, Michel Temer, attuale vice presidente del Brasile, viene accusato dal PT (Partito dei Lavoratori) di Dilma Roussef di tramare per sostituirla. Temer ha dichiarato infatti l’uscita del suo partito dal governo, e l’inizio di “trattative” con la destra, con un programma di rinnovata austerità come risposta alla crisi economica. La solita perdente ricetta neoliberista. In realtà Temer sta operando una fuga in avanti; diventa impossibile che il suo partito, e lui stesso già citato nei documenti giudiziari, non abbiano partecipato, con le mani nella marmellata, nell’”affare Petrobras” . Tutti sanno, anche i cittadini ciechi e sordi, che i petrolieri sono i maggiori corruttori, anche per quantità di denaro, del mondo. Adesso sono tutti in attesa. Infatti, in Brasile, si avvicinano le elezioni amministrative, e tutti scappano, ognuno tirando l’acqua per il proprio mulino e ognuno “promettendo” risultati e incarichi. Quindi non cambia la sostanza del dibattito né il meccanismo di nepotismo o di mercato dei voti. In fondo anche in Brasile le intercettazioni sono ammesse, eccetto quelle di prerogativa costituzionale dei ministri e della presidenza, che ricadono sotto la giurisdizione del Tribunale Speciale Federativo. Il semplice giudice Moro, che ha innescato il meccanismo con l’impedimento all’ex presidente Lula di accedere al posto di vice-ministro proposto da Rousseff, si è “scusato” con il TSF di aver reso pubbliche le intercettazioni ed è “dispiaciuto dei malintesi inutili” che le sue dichiarazioni hanno provocato. Cioè semplicemente la prevista caduta del governo Rousseff e il caos politico susseguente, oltre la violenta spaccatura nel paese con enormi manifestazioni interposte. Oltre la spaccatura prossima con il Brics alter-mondialista internazionale, (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica),con un ritorno probabile nell’alveo liberista e servile nord americano. Una bazzecola. Però in democrazia ognuno ha quello che si merita. Venezuela compreso. E forse Cuba a seguire. Diciamo che il sogno di nuovo “socialismo” del Sud America, sempre molto fragile, sembra compromesso, e più di quel che si pensa, proprio dal “popolo”. Certamente la corruzione mondiale dilagante va punita paese per paese, e tutti hanno le leggi ad hoc, ma, per il capitalismo, è un po’ come il peccato per la religione cattolica, ci si pente, ma non se ne fa a meno. Si rischia di suddividere la corruzione in grave e meno grave e allora bisognerà chiedere a terze persone di giudicarne lo spessore, ammettendo la loro onestà o la loro indipendenza. Ma il tutto, di per sé, è già una sconfitta.