Per tutti noi che seguiamo assiduamente le tematiche dell’emigrazione italiana, discutere dell’oggi e del futuro, e non solo della nostra storia di emigranti, rappresenta un’occasione importantissima per ragionare in un’ottica innovativa di geopolitica. Ed è ciò che è stato fatto a Monza, qualche giorno fa, ad un convegno sul tema degli “Italici”, promosso dalla Camera di Commercio locale e dall’Associazione Globus et locus, che ringrazio per le iniziative sempre serie e stimolanti. Dopo più di 150 anni l’Italia continua a essere un Paese di emigrazione, con una consistente presenza italiana nel mondo. In tutti questi anni abbiamo avuto una politica migratoria a fasi alterne: a volte politiche intelligenti, altre volte inefficaci, altre ancora assenza di politiche generali su questo universo. Per molto tempo si è discusso – e lo si fa anche oggi – di quali siano i problemi legati all’emigrazione, di come arginarla. Oggi, poi, va molto di moda la retorica dei “cervelli in fuga”. Si fanno discussioni, anche corrette, su quanto lo Stato abbia investito nel formare cervelli, di quale perdita rappresenti consegnare questo capitale umano a paesi che ne beneficiano a costo zero. E si ragiona su politiche che dovrebbero porre un freno a questo esodo e, qualche volta, su provvedimenti che hanno l’illusorio intento di invertire la direzione e far rientrare chi è partito. Raramente si discute su chi siano coloro che se sono andati, i loro discendenti, le loro famiglie, coloro che italiani non sono più del tutto, ma che all’Italia guardano sempre. Raramente si discute con cognizione e volontà progettuale di cosa sia questa comunità chiamata degli “italici”. E ancor meno si discute di come valorizzare, mettere l’Italia in connessione sentimentale, culturale, sociale ed economica con gli italici. Questo universo mantiene un legame con l’Italia, fatto di consanguineità, radice culturale, affetto, interessi economici. Consuma prodotti italiani, crea un substrato fertile che veicola la nostra cultura, il nostro stile di vita e i nostri prodotti. Si tratta di una collettività fatta di milioni di persone che si rapporta anche istituzionalmente con l’Italia. E che vorrebbe farlo in modo più strutturato e meno dispersivo da un punto di vista politico e strategico, perché sa di essere un pezzo di politica estera e di proiezione internazionale. Per farlo avrebbe bisogno di una cabina di regia adeguata, pensata e valorizzata come uno dei pezzi di una diplomazia che lavora come sistema Paese a determinati obiettivi. Una sorta di megadiplomazia fatta dalla diplomazia ufficiale, ma anche da quella economica, da quella solidale delle Ong, dagli stessi italici. Purtroppo ancora oggi questa comunità valoriale ed economica non è riconosciuta come tale e come parte del sistema Paese, sebbene abbia istituzioni di rappresentanza articolate in tre livelli: quello di base dei Comites, che coincide con le circoscrizioni consolari; quello intermedio del CGIE, che coincide con i livelli statali e continentali, che fa capo alla Farnesina; quello parlamentare, omposto di 18 eletti all’estero nei due rami del Parlamento. Oggi è in corso una riflessione sulla riforma di queste istituzioni che spero porti a un’organicità di strumenti e strategia politica verso le comunità italiche e a un investimento politico (ed economico) in chiave contemporanea in diffusione di lingua, cultura e impresa italiana, di servizi ai cittadini e alle imprese, di valorizzazione e riconoscimento di questo universo italico in un contesto di politica estera e proiezione del sistema Paese. Alla fine degli anni ‘70, la Fondazione Agnelli aveva riconosciuto in un suo bellissimo studio, che la penetrazione commerciale di FIAT all’estero era stata molto agevolata dalla presenza di comunità italiane emigrate. Ciò significa che l’impresa italiana ha tratto, e ancora trae, un vantaggio di Marketing gratuito dalle comunità italiche. Se questo vantaggio spontaneo lo sappiamo organizzare avremo grandi e ulteriori chance. Rimanendo al piano competitivo e strategico, sappiamo che nel sistema globale si gioca sulla base dei rapporti di forza più che con spirito solidale e redistributivo. Chi ha più forza, risorse economiche, idee e strumenti, riesce a far circolare i propri prodotti e piazzarli meglio sul mercato globale. Come sostiene una delle massime menti del marketing globale, Mary Douglas, il prodotto oggi non coincide con il suo contenuto, ma con il suo racconto. Una regola che vale particolarmente per l’Italia, patria del “ Cunto de li Cunti ”, che fu forse nel pieno barocco del ‘600 il primo straordinario market place del made in italy, dove la dieta mediterranea veniva declinata lungo la linea della magia della commedia dell’arte. Oggi siamo alla fase suprema di questa strategia, e proprio in questo tornante il nostro Paese si trova disarmato, senza linguaggi e senza lingue. In questo senso un tema che ancora oggi è un buco nero, riguarda la TV italiana nel mondo, che il racconto dell’Italia dovrebbe fare più di altri. Alle spalle abbiamo anni di esperienze infelici a fronte di una straordinaria domanda di italianità. Non si tratta di riproporre una TV bandiera, che trasmetta un palinsesto di quanto va in onda in patria, ma di lavorare sullo sfondo più che sulla scena. Come spiega il giornalista Rai Michele Mezza, occorre costruire colonne sonore e visive che siano di integrazione e di accompagnamento agli eventi che il made in italy organizza nel mondo e in Italia. Occorrerebbe farne un’agenzia di diffusione dell’offerta comunicativa italiana puntando, ad esempio, su contenuti di qualità, come i Festival, l’Auditorium della musica di Roma, la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, le Università e via di seguito. Assicurare un striscia di informazione sui primati italiani: il mondo e la politica internazionale letti attraverso la geopolitica dell’eleganza, del gusto, della bellezza e della qualità. Trasformare la TV in un centro di traduzione e reimpaginazione del modo italiano, nei vari settori delle sue imprese che guardano ai mercati esteri. Rai Italia dovrebbe quindi sviluppare una politica di sponsorizzazioni, alleanze e coordinamento con enti, istituzioni e imprese proiettati all’estero, con gli influencer più rappresentativi (tra i quali gli italici), con i distretti di produzione e di eccellenza in Italia e italiani nel mondo. Occorrerebbe costruire un sistema audiovisivo che sia una piattaforma di coinvolgimento dove si guardi, si ascolti, ma si interviene anche e si acquista o si chiede, un market place della bellezza da modellare area per area, città per città, settore per settore. Basterebbe una struttura leggera che selezioni le priorità (design italiano negli USA, enogastronomia in Cina, moda e design in Sud America, arredo in Asia e Americhe) e allo stesso tempo proponga pacchetti multimediali, dove il Web diventa la fabbrica aperta e la TV un network distributivo. Insomma, bisognerebbe darsi una politica per gli italici che porti a considerarli ciò che sono: un pezzo consistente, fondamentale e strategico della presenza e proiezione italiana nel mondo.