Max, chiamiamolo così, è venuto in Belgio per amore. E Francesco, nome di fantasia pure questo, è un migrante economico fuggito da Venezia con moglie, un figlio piccolo e un altro in arrivo, dalla sua Venezia. Hanno in comune l’età – appena sotto i quaranta – la residenza a Bruxelles e un pezzo di carta:
l’OQT, l’ordre de quitter le territoire. Foglio di via. Perché l’Europa esiste ma la libera circolazione degli europei no. E’ appesa a un comma di una circolare, ostaggio della discrezionalità di funzionari comunali e questure.
Una norma del 2004, all’epoca dell’allargamento a est dell’Unione, per scongiurare il turismo del welfare, che fa a pugni con altre clausole dei trattati e mette le persone nelle mani della discrezionalità dei burocrati e di interpretazioni restrittive o illegali. In Belgio il 15% del totale delle persone espulse dal territorio è di nazionalità italiana.
Schaerbeek
Max era stanco di supplenze. E’ venuto per insegnare italiano ma anche qui l’Italia lo ha trattato da insegnante di serie B, senza indennità di trasferta e con gli stipendi che arrivavano a singhiozzo. Max si licenzia ma intanto s’è innamorato e decide di iniziare la trafila per ottenere la residenza, allega il contratto di lavoro di lei e il certificato di proprietà della casa. «Volevo stare in Belgio ma loro volevano le prove che stessi fattivamente cercando lavoro». Lui, insegnante più che specializzato, sfodera un curriculum di tutto rispetto: sette anni di insegnamento tra il Belgio e il Nord Italia, un progetto in Islanda. Poi, a febbraio 2016, scende a Bologna per sposarsi. Pochi giorni dopo, il 15 marzo, il comune di Schaerbeek, uno dei municipi della cintura della capitale, lo manda a chiamare: «Lei è stato espulso, deve lasciare il Belgio entro 30 giorni. Altrimenti è la prigione». Max descrive quello che chiama il Castello di Kafka, le visite della polizia a casa e il dialogo impossibile con la burocrazia belga che, ad esempio, rifiuta di prendere in considerazione il certificato di matrimonio tradotto a 30 euro al foglio e vidimato dall’ambasciata. «50 anni fa – dice ancora a Left – compravano contadini siciliani per farli morire nelle miniere e ora cacciano un siciliano che non chiede nulla al Re del Belgio se non la residenza».
Secondo Max, le amministrazioni sono ostaggio dei nazionalisti fiamminghi come quelli del NVA e cercano di movimentare le statistiche sulle espulsioni. C’è una forte discrezionalità, però: Bruxelles non è una città ma la somma di diciannove comuni. La stessa domanda respinta a Schaerbeek, dove c’è una forte presenza di immigrati, può essere accettata in scioltezza in altri comuni.
Schaerbeek, come Molenbeek, Forest e Saint-Gilles, sono stati teatro delle operazioni massicce in seguito agli attentati jihadisti di Parigi e di Bruxelles. Proprio mentre le storie di Max e Francesco prendevano corpo.
Molenbeek
Quest’ultimo risponde a Left proprio da Molenbeek, 100mila persone a ovest della capitale, molte delle quali di origine araba o nordafricana. Francesco ci vive bene. «Molenbeek mi ha rimesso al mondo, al di là dei muri costruiti nella testa della gente». Una laurea in Lettere su Jung e l’Alchimia, Francesco è in Belgio da due anni e, dopo aver promosso eventi sportivi tra i canali e le calli di Venezia ora lavora nel quartiere per conto del Centre Communautaire Maritime de Molenbeek, con un contratto che gli dovrebbe consentire l’accesso all’indennità di disoccupazione.
Racconta di essere andato via da una città in preda alla speculazione, commissariata dopo le vicende che travolsero la giunta Orsoni: «Non volevo essere un “indiano”, una comparsa. Sono emigrato nella speranza di un confronto con l’Europa». La scelta di un paese francofono per via di sua moglie francese, la fuga da un paese in cui il welfare si sta ormai prosciugando: «Volevamo stare dove ancora regge il patto sociale – spiega – qui è un’altra dimensione. Il Belgio chiede molto ma restituisce nei momenti di difficoltà. C’è una forma di reddito garantito per chi perde il lavoro. Quartieri come questo vivono così: certo, esistono rischi di assistenzialismo ma non esistono le angosce che si vivono in Italia nelle stesse condizioni».
Lo scorso 16 marzo, proprio mentre la sua compagna scampava alla sparatoria prodotta da un’operazione antiterrorismo nel quartiere, Francesco ritirava una raccomandata dell’ufficio stranieri il preavviso di OQT perché per quattro mesi non risulta aver lavorato. In realtà ha lavorato al nero, «la ristorazione funziona peggio di quella italiana e spreme lavoranti del Sud dell’Europa». Anche per Francesco la conclusione è amara: «A settant’anni dagli accordi bilaterali sull’immigrazione italiana, quando braccia a basso costo venivano concentrate in posti come Marcinelle, ci vengono a dire che siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità mentre siamo tornati come migranti economici anomali, in cerca di futuro e ancora come manodopera a basso costo. Ma io ho avuto una buona stella, in poche ore ho scritto una memoria e l’ho portata a La Comune del Belgio che ha impostato una procedura di ricorso».
Bruxelles Mille
Bruxelles Mille, il centro della “capitale” dell’Europa. Mille dal codice di avviamento postale del più centrale dei 19 comuni che vanno a comporre la metropoli. Su una porta, un cartello scritto a mano recita, in italiano, “Sportello migranti”. I locali sono del centro Garcia Lorca occupati dagli anni ’30 dagli esuli del franchismo e oggi dagli esiliati del neoliberismo. Qui hanno trovato sede associazioni, collettivi e partiti di sinistra, belgi, italiani, spagnoli. Ci sono spazi per il doposcuola per i bambini, per la riduzione del danno, ed è qui che si trova La Comune del Belgio. «Un’associazione di nuovi emigrati italiani che pratica mutuo soccorso per promuovere equità, solidarietà, cooperazione. Non è solo un centro di servizio ma lo spazio per una pratica che serve a coinvolgere ed emancipare. Abbiamo scelto La Comune come nome con un riferimento a quella di Parigi e perché ognuno di noi mette in comune un pezzo della sua vita e della conoscenza». Così spiega Pietro, ricercatore di 40 anni in Belgio da cinque.
A due anni dal caso dell’attrice Silvia Guerra, che fece scoprire all’Europa l’espulsione di massa di italiani e comunitari, il 10% degli espulsi dal Belgio sono ancora italiani. Fino a quel momento si trattava delle persone più borderline, spesso con precedenti penali. «Poi dal 2010 e sotto il governo socialista di Elio Di Rupo, comincia a essere applicato in maniera arbitraria questo concetto del “sei un peso per la spesa sociale del Belgio”», continua Pietro facendo riferimento a una Direttiva Europea, esattamente quella che dovrebbe garantire la libera circolazione delle persone in Europa, che dà diritto a uno stato membro di allontanare chi è un “onere eccessivo” per il welfare locale. Gli uffici stranieri si barricano dietro quella direttiva ma per moltissimi giuristi l’interpretazione è arbitraria, c’è un altissimo tasso di discrezionalità e una pressione su chi rischia di non essere un produttore di ricchezza. «E’ possibile – riprende Pietro – che sulle statistiche delle espulsioni si possano costruire campagne contro gli stranieri. Qui poi, c’è il paradosso che i nazionalisti belgi sono separatisti fiamminghi».
Dall’Italia, stando ai registri del Consolato, ci sono stati circa ottomila mila nuovi arrivi nel 2015, ma si pensa che il dato ufficioso si attesti tra 24 e 32 mila, persone “invisibili” al consolato ma non al Belgio. Per tutti, la prima tappa è l’ufficio anagrafe comunale. Ufficialmente 157 mila, su 10 milioni di abitanti, sono italiani, ma probabilmente il doppio quelli reali, visto che molti non si registrano al Consolato. 4-5mila l’anno in totale gli OQT complessivi. «Non abbiamo ancora interagito con la nostra ambasciata. Sarà una delle prossime mosse. Ma è sintomatico di una mancanza assoluta di presenza delle istituzioni italiane in Belgio rispetto ai nuovi migranti. Mi stupirei che abbiano dati in mano», dice Alessandra Giannessi, 27 anni, da Pistoia, “sedotta” da Bruxelles («ci sono più opportunità che altrove per stare al mondo e questa città ha accolto le energie che avevo voglia di mettere a disposizione») durante l’Erasmus in Scienze Politiche.
La Comune, in rete con spagnoli del 15M (gli indignados), portoghesi e greci di sinistra, ha dato vita a EU4People, una rete che si occupa di sensibilizzare sulle espulsioni di europei e rivendica il diritto alla libera circolazione. «Bruxelles è una realtà fertile e aperta. Finché va tutto bene. Lo stato sociale belga, finché funziona, finché si riesce a entrarci, è uno dei migliori. Meglio, lo era perché ci sono spinte politiche per manometterlo.
Europe for people nel giro di un paio d’anni ha dovuto contare alcune migliaia di espulsioni di europei. Quasi nessuno di loro risponde agli stereotipi di scansafatiche in cerca di sussidi, quasi tutti lavoravano in regime di articolo 60, reinserimento professionale (come Francesco, ndr) – continua Alessandra – dopo la vicenda di Silvia ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare ed è nata questa piattaforma con altri collettivi, sindacalisti belgi, avvocati che lavorano a titolo gratuito. Una volta a settimana apriamo lo sportello al Garcia Lorca e intanto costruiamo l’analisi sulle varie figure di migranti per decostruire il discorso puramente economico, lo stereotipo. Abbiamo fatto una ricerca sulla nuova emigrazione italiana somministrando un questionario a 500 persone tra i 20 e i 40 anni».
Tuttavia, la crisi ha fatto schizzare gli arrivi dal 2011 (+93% comparato agli arrivi del 2007).
Intanto, il welfare è sotto attacco in Belgio. «Non è solo l’ultimo governo di centrodestra ma anche quello a guida “socialista” aveva spianato la strada alla riduzione della platea dei beneficiari dell’indennità di disoccupazione, della cassa integrazione, dei contributi sociali da parte dei Cpas (centro pubblico di aiuto sociale) per l’affitto o le spese sanitarie di che non sa come vivere. Dall’inizio dell’anno, anche sulla scia della Francia, si sono susseguiti scioperi e manifestazioni, il 24 giugno c’è stato uno sciopero generale, contro la Legge Peters, una sorta di jobs act che vuole portare a 45 le ore di lavoro settimanali».
QUANTO CONTA IL PRECARIATO ITALIANO IN BELGIO
Dei nuovi italiani arrivati in Belgio, il 47.7% ha tra i 30 e i 45 anni, il 45.2% ha meno di 30 anni e il 7.1% ha più di 45 anni. Un’età quindi mediamente elevata rispetto alla narrativa corrente che vuole la nuova migrazione come fenomeno esclusivamente giovanile. Il 59.2% lavora, il 15.9% cerca lavoro e il 19.5% è venuto in Belgio per studiare. Due terzi del campione non sono alla loro prima esperienza all’estero. Coloro che già lavorano sono in ampia maggioranza (76%) qualificati e la stragrande maggioranza (81.3%) è soddisfatta di un lavoro che corrisponde alle proprie qualifiche. Ancora oggi, le persone si muovono per lavoro (84%).
L’inchiesta mostra quanto l’involuzione dei rapporti di lavoro in Italia, e la ricerca di un percorso professionale stabile, retribuito a sufficienza e con coperture sociali giochi un ruolo fondamentale. Il 75% già lavorava in Italia, ma occupato con un cotratto atipico/precario (32%), tempo determinato (23%), o addirittura in nero (11%) in nero o con partita iva (3%). Anche l’83% di coloro che stanno cercando lavoro in Belgio lavorava in Italia. Lavoro in nero (26.3%), contratti atipici/precari (26.3%), con partita iva (2.6%) o a tempo determinato (21%). Il 75.7% di chi cerca lavoro lo accetterebbe anche non in linea con il titolo di studio.
Non è soltanto “fuga di cervelli”, i dati mostrano che il 25% della nuova migrazione è costituita da persone senza un alto livello di scolarizzazione. Infine, solo 1/3 del totale è iscritto all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti Estero) e solo 2 su 10 credono che faranno ritorno in Italia. [fonte: La Comune del Belgio 2015- Checchino Antonini]
FONTE: http://popoffquotidiano.it/2016/08/12/il-re-del-belgio-caccia-i-migranti-italiani/
Una versione di questo articolo è uscita in edicola nel numero 32 del settimanale Left del 7 agosto 2016