Il convegno dedicato ai 70 anni degli accordi italo-belgi per il reclutamento di manodopera italiana apre l’iniziativa “Migrazioni: da Marcinelle a Lampedusa” Promossi dal Comitato per le questioni degli italiani all’estero del Senato Ieri una riflessione sulla storia dell’emigrazione italiana introdotta dal presidente del Comitato, Claudio Micheloni: “no buonismo ma solidarietà; onorare le vittime delle tragedie dell’emigrazione significa promuovere una riflessione su come oggi ci comportiamo con i migranti” Tra gli interventi anche il saluto del presidente del Senato, Pietro Grasso: “Marcinelle è uno dei simboli della storia della nostra emigrazione e della costruzione dell’Europa unita, perché la dignità del lavoro che lì è stata offesa è divenuta fondamento irrinunciabile della nostra Europa” ROMA – Con il convegno dedicato ai 70 anni degli accordi italo-belgi per il reclutamento di manodopera italiana si è aperta ieri nella Sala degli Atti parlamentari della Biblioteca “Giovanni Spaolini” del Senato della Repubblica “Migrazioni: da Marcinelle a Lamapedusa”, rassegna promossa dal Comitato per le questioni degli italiani all’estero di Palazzo Madama per unire le vicende dell’emigrazione italiana ad una riflessione sull’accoglienza e l’integrazione dei migranti di oggi. Il convegno, introdotto e moderato dal presidente del Comitato Claudio Micheloni, è stato aperto dall’intervento del presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha ribadito l’importanza di comprendere e conoscere la nostra storia di emigrazione per affrontare le sfide attuali rappresentate dall’arrivo dei migranti sulle nostre coste. Ha ricordato in particolare la sua visita in estate a Lampedusa, e le impressioni suscitate dall’aver assistito ad uno sbarco di “persone con sguardi di sofferenza, ma anche di speranza, di dolore per i compagni perduti e per aver abbandonato la loro terra di origine, di orrore per le guerre conosciute, ma anche di fiducia quando percepivano di essere accolti con affetto”. “Lampedusa è un avamposto di solidarietà conosciuta in tutto il mondo – ha rilevato Grasso, segnalando come “proprio lì comincia l’Europa”. Richiamata poi la sua partecipazione alla commemorazione delle vittime di Marcinelle, la miniera di carbone nei pressi di Charleroi in cui l’8 agosto 1956 morirono 262 lavoratori, 136 dei quali italiani. “Il disastro di Marcinelle – ha ricordato il presidente del Senato – è uno dei simboli della storia della nostra emigrazione, simbolo anche della costruzione dell’Europa unita, perché la dignità del lavoro lì offesa è divenuta fondamento irrinunciabile della nostra Europa”. Per Grasso “ripensare a come eravamo” è dunque necessario “per rafforzare la nostra determinazione ad una accoglienza improntata alla solidarietà”, perché, “come scriveva Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, e non possiamo tracciare una netta linea di demarcazione tra chi bussa oggi alle porte d’Europa e la nostra storia di emigrazione, di uomini e donne che condividono le stesse emozioni, sentimenti, paure e speranze”. Micheloni ha sottolineato come il ricordo dei 70 anni degli accordi italo-belgi, così come i 60 anni di Marcinelle o i 50 anni della tragedia di Mattmark – anniversario celebrato l’anno scorso con un’analoga iniziativa in Senato – non siano frutto di “una sensibilità di circostanza” ma della “volontà più volte espressa dal Comitato per le questioni degli italiani all’estero di ricordare le vittime onorandole, ossia promuovendo una riflessione su come oggi ci comportiamo con i migranti”. Il presidente evidenzia infatti come, nonostante mutino i contesti e i tempi della storia, si parli sempre di “uomini, donne, bambini che emigrano per migliorare la propria condizione di vita, se non di sopravvivenza” e mette in guardia dai pericoli del “buonismo”. “Non c’è buonismo nelle mie parole e io credo che non vi sia nulla di peggio di quest’ultimo per alimentare il pregiudizio e la xenofobia. La solidarietà è necessaria e non ha nulla a che fare con il buonismo, si tratta di fare uno sforzo per portare le nostre riflessioni alla luce di un ragionamento razionale, sottraendole così – afferma – alle viscere del populismo”. Richiamando un testo di Paolo Di Stefano, Micheloni rileva come “oggi, nei Paesi di emigrazione siamo tutti ministri; ci siamo dimenticati di quando eravamo invece miserabili”. L’auspicio è che si possa superare la contraddizione insita nel fenomeno migratorio, “che ci porta a sentire molto vicine persone che sono invece molto lontane e viceversa lontane – conclude Micheloni – persone che sono a noi molto vicine”. Le vicende dell’emigrazione italiana in Belgio sono state quindi ricordate con il video “Da emigranti a cittadini europei” e con le immagini e i documenti presenti in sala negli allestimenti “Popoli in movimento oggi come ieri”, curata dalla Fondazione Paolo Cresci e dal Circolo Fotocine Garfagnana, e “Memoria del passato per costruire il futuro. Accordi italo-belgi e tragedia di Marcinelle” a cura di Italo Rodomonti, segretario generale C.s.c. Miniere-Energia-Chimica, Belgio. Proprio Rodomonti ha ripercorso le vicende che portarono alla firma degli Accordi, nel 1946, determinati dalla necessità di reperire manodopera per la “battaglia del carbone” che doveva risollevare le sorti del Paese dopo il secondo conflitto mondiale. Nonostante gli incentivi offerti a fronte dell’arruolamento in miniera, infatti, i belgi erano poco disposti a quel tipo di lavoro, per le condizioni, la dura fatica e il pericolo che esso comportava. Arrivarono così circa 50 mila italiani, 2 mila a settimana, spesso reclutati – ricorda Rodomonti – “attraverso una propaganda lusinghiera che non rappresentava le cose come stavano, ossia quella di un lavoro straziante e pericoloso, di un disagio abitativo unito ai difficili rapporti con la popolazione locale”, che accusava i connazionali di rubare il lavoro, o sospettava di loro per la diffusione di pregiudizi che li volevano pigri e violenti. “Marcinelle costituì una cesura dell’emigrazione italiana in Belgio – ricorda Rodomonti, segnalando come solo allora “l’Italia si accorse dell’esistenza degli italiani all’estero” e come il movimento di solidarietà che coinvolse l’Europa intera contribuì a stimolare una presa di coscienza necessaria al miglioramento delle condizioni lavorative – con il progredire della legislazione a tutela della salute (la silicosi venne riconosciuta quale malattia professionale solo nel 1963) – e all’integrazione sociale e politica degli immigrati (si costruirono alloggi adeguati, si consentì ai lavoratori la partecipazione attiva al sindacato). Rodomonti rileva tuttavia come “i primi 15-20 anni di emigrazione italiana immediatamente successiva agli Accordi furono moto difficili” e ribadisce il ruolo che ebbero i sindacati e i patronati spesso costretti a “rimediare alle mancanze dei governi”, nel promuovere il dialogo sociale e per il miglioramento delle condizioni di vita. Richiamato infine il ruolo delle donne, centrale per l’integrazione degli immigrati, e come la memoria dell’emigrazione italiana in Belgio – rappresentata dalla lanterna e dal carrello dei minatori, simboli di fratellanza e lavoro – debba oggi continuare ad essere coltivata per “difendere le conquiste ottenute” e “per un’economia che resti al servizio dell’uomo e non viceversa”. A ripercorrere la storia dell’emigrazione italiana in Belgio anche Pierre Tilly, docente di Storia dell’Università Cattolica di Lovanio, che ha ricordato come la collettività italiana sia quella più numerosa in Belgio e come l’emigrazione sia cominciata già molto prima degli Accordi, a partire dal 1800. Un percorso intrapreso individualmente, spesso per motivi politici, e che ha portato i connazionali al numero di 30 mila nel 1930, costituendo così una comunità che fece da sopporto solidale a coloro che si aggiunsero al termine della guerra. Tilly rileva inoltre “la persistenza che ebbe questo afflusso senza precedenti di italiani giunti per lavorare nelle miniere”, tanto che si stima che 163 mila connazionali rimasero in loco. Il flusso non si arrestò neppure con Marcinelle, ma proseguì meno impetuosamente e comunque regolato a partire dal 1957, dai Trattati di Roma, che gradualmente introdussero la libertà di circolazione in Europa. “L’esodo continuò e nel 1970 la collettività italiana in Belgio raggiunse le 300 mila unità – afferma lo storico, che ricorda come solo negli anni Sessanta si pose fine al periodo di emarginazione sociale – nel 1965 venne per la prima volta riconosciuto ai connazionali il diritto di riunirsi e partecipare ai dibattiti politici – e si innescò il processo di mobilità sociale che consentì alla comunità di integrarsi pienamente nella società belga. Tilly ricorda in particolare come tale emarginazione sociale fosse caratteristica dei “falansteri”, gli hangar di alluminio in cui erano alloggiati i minatori, che spesso erano gli stessi in cui erano stati rinchiusi i prigionieri di guerra. Oggi “gli italiani sono i custodi della nostra memoria mineraria e della storia sociale belga – afferma Tilly. Con il tempo – segnala lo storico – hanno assunto un’identità positiva che riassume elementi di entrambe le cultura ed è frutto della loro stessa scelta, “un’identità formata per se stessi che resta comunque fortemente legata alle origini”. Roberto Parrillo, segretario generale del sindacato belga C.s.c. Autotrasporti e logistica, ricorda la sua esperienza familiare di figlio di minatori, soffermandosi sulle difficili condizioni lavorative e sul percorso che ha consentito alla collettività di divenire a pieno titolo parte della società belga. Ribadito in particolare il ruolo dei patronati e del volontariato per l’integrazione. Per quanto riguarda invece i flussi migratori attuali Parrillo ritiene che l’Europa sia stata vittima di “un accecamento collettivo che non ha consentito di vedere come l’arrivo di migranti fosse ineluttabile e che ha ulteriormente aggravato la situazione”. “L’impatto va anticipato e non subito – ammonisce il sindacalista, ritenendo insostenibile sia la completa apertura che la chiusura delle frontiere, mentre giudica fondamentale l’importanza dei corpi intermedi, come associazioni e sindacati, insieme ad una informazione e formazione che porti a condividere ricchezze, conoscenze ed investimenti. In chiusura, Micheloni segnala come per i belgi e gli italiani “le cose siano cambiate quando le due parti si sono conosciute; occorre prima conoscersi, per potersi riconoscere”. (Viviana Pansa – Inform)