di Marco Bersani (foto accanto) - Il debito e le disuguaglianze costituiscono la cifra del capitalismo nell’epoca della sua finanziarizzazione spinta. Tale connubio è innanzitutto evidente per via empirica: dall’inizio della crisi globale ad oggi, vi è stato,
in tutti i paesi industrializzati, un consistente aumento dell’indice di Gini (che misura la disuguaglianza sociale) e contemporaneamente un innalzamento costante del debito pubblico.
Si tratta tuttavia di un connubio molto più strutturale di quanto si pensi, al punto che entrambi i poli si alimentano l’un l’altro in un circolo vizioso, che, senza l’introduzione di una forte discontinuità, può rivelarsi senza fine.
L’aumento delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, che altro non significa se non una drastica riduzione dei redditi per le fasce sociali più basse, comporta infatti, da una parte, la drastica riduzione dei consumi e dall’altra l’altrettanto drastica diminuzione dell’innovazione nelle imprese, che possono quindi competere solo sulla compressione dei salari.
Inoltre, la riduzione dei consumi diminuisce i profitti monetari delle imprese che quindi, per il proprio autofinanziamento, devono aumentare la propria dipendenza dal sistema bancario.
La crescita delle disuguaglianze è anche il vero motore dell’economia a debito, sia quello privato, perché se i redditi sono ridotti l’indebitamento diventa una necessità, sia quello pubblico che viene incrementato attraverso diversi canali: da una parte, aumentando la disoccupazione e la precarietà, contribuisce all’incremento della spesa pubblica per stabilizzare, anche se in minima parte e con funzioni soprattutto di controllo sociale, le disuguaglianze stesse; dall’altra, accresce il potere politico dei detentori di ricchezza, che sempre più otterranno politiche di minor imposizione fiscale e maggior tolleranza dell’evasione.
Risulta quindi evidente come la narrazione dominante sul debito pubblico, per la quale forti e continuative politiche di austerità sono necessarie e indiscutibili, si riveli una trappola, in quanto è proprio il mantenimento delle stesse a provocare da una parte l’aumento delle diseguaglianze, dall’altra l’aumento del debito.
“L’indebitamento dello Stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria (..) il disavanzo dello Stato è infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato, che, mantenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”. Così scriveva un certo Marx ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”. Una descrizione quasi attuale, se non fosse per l’intensità esponenziale con cui oggi questo meccanismo si manifesta.
Si tratta di conseguenza di un enorme trasferimento di ricchezza dal lavoro alla rendita finanziaria, che oggi ha esteso i suoi confini all’intero stato sociale, ai servizi pubblici e ai beni comuni.
Di fatto, il tentativo in atto è di mettere a valore ogni parte dell’esistenza delle persone e l’intero ecosistema, in un processo che dal punto di vista sociale significa la progressiva rottura di ogni elemento “pubblico”, “collettivo” o “comune” e dal punto di vista individuale la progressiva sostituzione dell’”io” al “noi”.
E’ per questo che il concetto di uguaglianza che ha attraversato -e per certi versi forgiato- la storia dalla Rivoluzione Francese a quasi tutto il ‘900, è oggi scientemente rimosso e negato da ogni narrazione dominante.
Vivono nel sacro terrore che alla loro affermazione “E’ tutto oro quel che luccica” si cominci a rispondere “Non è tutto loro quel che luccica”.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 27 di Gennaio-Febbraio 2017 “Il deserto delle diseguaglianze”
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