Il Parlamento italiano a poche ore dal preannunciato Decreto Presidenziale di scioglimento delle Camere, lo stesso il cui Senato lo scorso 23 dicembre ha affossato definitivamente la tanto attesa legge sullo Ius Soli Temperato per mancanza del numero legale, approverà la richiesta del Governo Gentiloni relativa all’invio di una nuova Missione militare in Niger. Al di là delle soggettive riflessioni sulla funzione del Parlamento e del Governo di rispondere ai mutamenti sociali e alle richieste di diritti da parte di oltre 800.000 bambini e adolescenti “Italiani senza cittadinanza” cerchiamo di comprendere le motivazioni, il contesto geopolitico, i costi, i rischi e le finalità di questa nuova avventura “coloniale” in Africa. Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che già aveva preannunciato l’invio di 470 militari italiani in Niger al vertice del G5 Sahel (composto da Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad) di Celle-Saint-Cloud vicino a Parigi del 15 dicembre, ha chiaramente esplicitato, di concerto con la Ministra Pinotti, ai 1.600 militari dell’equipaggio il progetto interventista dal ponte della Nave Etna, il giorno della vigilia di Natale, con la seguente dichiarazione: “Proporrò al Parlamento di inviare i nostri militari in Niger. L’Italia ha l’obiettivo di costruire dialogo, amicizia e pace nel Mediterraneo e nel mondo”. La formula diplomatica rituale di Gentiloni mira in concreto alla creazione, insieme a contingenti francesi e tedeschi, di Una Alleanza per il Sahel finalizzata, come da lui stesso affermato, al contrasto delle milizie islamiste (in primis al-Qaeda nel Maghreb Islamico) e varie organizzazioni criminali in una regione in cui i traffici illeciti di esseri umani, armi, droga e i rapimenti contribuiscono al finanziamento delle varie organizzazioni jihadiste. Sullo sfondo si staglia inconfutabile l’obiettivo di bloccare i flussi migratori che, provenienti da 3 direzioni diverse (Africa occidentale, Golfo di Guinea e Corno d’Africa – vedi carta n.1), confluiscono ad Agadez in Niger per l’attraversamento del Sahara e il raggiungimento delle coste libiche. Ancora non è stato tuttavia esplicitato se l’operazione costituirà il primo intervento della Cooperazione militare rafforzata dell’Ue (PESCO) oppure un ampliamento ad altri paesi (ognuno però con proprie regole d’ingaggio) della Missione francese Barkhane già da anni attiva nella macroregione. Il contesto geopolitico è dunque riconducibile al rafforzamento del tavolo europeo di politica di difesa e sicurezza al quale stanno già intensamente lavorando Germania e Francia e nel cui contesto vuol inserirsi anche l’Italia, alla luce del recente riavvicinamento italo-francese dopo le divergenze degli ultimi anni iniziate con l’intervento francese in Libia del 2011, fortemente criticato dal governo Berlusconi, e proseguite col nostro mancato sostegno a quello in Mali del 2013. Per valutare oggettivamente rischi e problematiche legate alla nuova missione italiana abbiamo preso consultato il sito specializzato in questioni militari http://www.analisidifesa.it, dalle indubbie conoscenze e competenze in materia, prendendo in considerazione l’analisi di Andrea Giani emblematicamente intitolata “Luci ed ombre della missione italiana in Niger” la quale inizia con le difficoltà di carattere logistico che a quanto pare risultano di tipo strutturale visto che “La nuova operazione, lontana dal mare, richiederà un grande sforzo logistico per un’Europa quasi priva di trasporti aerei strategici e finora costretta a noleggiare in Russia i giganteschi cargo Antonov An-124 o a chiedere il supporto dei C-17 statunitensi e britannici”; andremo quindi in Sahel senza essere in possesso dei mezzi di trasporto adeguati. E una volta trasferiti i nostri militari con mezzi noleggiati ci troveremo esposti a rischi non indifferenti, visto che “Schierare truppe sul terreno aumenterà i bersagli a disposizione dei jihadisti per effettuare imboscate, attentati o seminare ordigni improvvisati lungo le piste desertiche battute dalle pattuglie. Inoltre non è ancora chiaro quali e quanti Stati Ue autorizzeranno l’impiego dei propri militari in azioni di combattimento mentre in Italia si sottolinea (come sempre) il ruolo dei nostri militari per addestrare le forze nigerine”. L’attentato del 26 dicembre all’oleodotto libico che trasferisce il greggio al terminale di Sidra in Cirenaica, controllato dalle milizie di Haftar, testimonia che i rischi di attacchi jihadisti sono non solo concreti ma anche elevati. L’analista Giani prevede nel contesto dell’operazione anche altre tipologie di insidie, evidentemente non secondarie, visto che “Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall’altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie. I francesi ‘giocano in casa’ non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall’intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti”. L’intervento militare italiano sembrerebbe dunque portare benefici di varia natura soprattutto all’alleato transalpino visto che “L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi. Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense”. Infatti prosegue Giani “Il varo dell’alleanza rappresenta senza dubbio un successo per il presidente Emmanuel Macron anche dal punto di vista finanziario poiché la nuova operazione militare verrà sostenuta da contributi internazionali: 50 milioni di euro dalla Ue, altrettanti dai 5 paesi africani coinvolti e 51 dagli Usa mentre la Francia ne stanzierà solo 8. Cifre comunque insufficienti per ora a raggiungere i 423 milioni di euro previsti per un anno di operazioni, anche contando i 100 milioni promessi dall’Arabia Saudita e 30 dagli Emirati Arabi Uniti”. Il ruolo dell’Italia si preannuncia quindi alquanto diverso dai fini umanitari enunciati da Gentiloni dal momento che secondo Giani “dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq“, in pratica un ridispiegamento e non un impiego aggiuntivo visto che l’Italia risulta già cospicuamente impegnata all’estero con oltre 6.000 militari impiegati in 33 missioni in 22 paesi.[1] I costi della missione in Niger non sono ancora stati quantificati dal governo che tuttavia assicura che “verrebbero compensati dalla sensibile riduzione delle forze in Iraq (missione costata quest’anno 301 milioni, 237 nel 2016 e 200 l’anno precedente) e da quella più limitata delle truppe in Afghanistan (con stanziamenti di 174,4 milioni quest’anno e 179 nel 2016)”. Il quadro generale dell’operazione lascia però presagire che i costi subiranno un incremento dal momento che i 470 militari ed i 150 veicoli “verrebbero schierati nella base francese di Madama (che dovrà essere ampliata e si trova in una regione ampiamente minata) per controllare le piste dirette in Libia e attraversate dai traffici migratori illegali il cui blocco resta prioritario per Roma”. I costi aggiuntivi dell’ampliamento per il Governo italiano sono probabilmente giustificati dalla posizione strategica dell’ex Forte della Legione straniera di Madama visto che “si trova a 700 chilometri da Agadez e a meno di 100 dal confine libico (vedi carta n.2) , in posizione ideale per tenere sotto controllo le piste utilizzate dai trafficanti di immigranti illegali che attraversano i 600 chilometri di frontiera desertica tra i due Stati”. Il nuovo protagonismo italiano nell’ambito della nascente difesa comunitaria è dunque sufficiente a giustificare una missione caratterizzata da costi elevati, rischi imprevedibili e sviluppi incerti? Analogo quesito si pone anche Giani quando si interroga sugli eventuali effetti positivi della missione “In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia”. Il contesto ed i connotati dell’intervento pongono seri dubbi anche a Giani visito che da esperto analista militare, nel redigere il bilancio geostrategico previsionale dell’operazione italiana, arriva alla seguente conclusione “La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico“. Arrivando, alla cinica e irrispettosa del diritto internazionale ma pragmatica, dal punto di vista militare, conclusione che “In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli”. Sottolineando che siamo anni luce distanti dalla matrice culturale militarista di Giani priva di basilari elementi umanitari verso la massa di disperati che fuggono da situazioni disperate per finire in mano ad organizzazioni criminali che infliggono loro sofferenze inimmaginabili tramite nuove forme di schiavitù che non si limitano allo sfruttamento, alla reclusione e alle violenze ma che hanno addirittura resuscitato la tratta degli esseri umani, appare ineludibile porsi il quesito se avventurarsi in una operazione simile sia esclusivamente funzionale al ritagliarsi un ruolo di primo piano nel neo costituito tavolo comunitario di politica di difesa e sicurezza e a bloccare i flussi migratori verso le nostre coste? A seguito degli accordi di luglio 2016 sottoscritti dal nostro governo con quello libico e nigerino gli sbarchi, a partire da quella data, hanno subito un drastico ridimensionamento, tant’è che nel 2017 si attesteranno a circa 120.000 unità, pari ad un -34% rispetto all’anno precedente (vedi grafico n.1). La netta riduzione, concentrata esclusivamente nel secondo semestre dell’anno, lascerebbe presupporre che finalità principale non sia il contrasto dei flussi in entrata, a meno che non si persegua l’obiettivo dell’azzeramento, né tantomeno stanno a cuore le condizioni umanitarie dei profughi che fuggono a causa di guerre, regimi dittatoriali e cambiamenti climatici rispetto ai quali i paesi europei hanno pesanti responsabilità, visto che prioritariamente interessa loro che vengano trattenuti, disinteressandosi delle condizioni, sul suolo africano, come in effetti sta già avvenendo dato che in Libia sono presenti circa 700.000 migranti in mano ai trafficanti di uomini. Quindi gli interessi concreti sono a mio parere da ricondurre, oltre che al rinsaldamento dei rapporti fra Parigi e Roma ricercato da Macron dopo le tensioni dell’era Sarkozy, principalmente ad un nuovo protagonismo geostrategico italiano in Africa subsahariana, dopo il ridimensionamento in Libia a seguito dell’abbattimento di Gheddafi nel 2011, che il nostro paese persegue cercando di inserirsi a fianco di Francia, Germani e Stati Uniti, già presenti e militarmente attivi nell’area. Presenza italiana sicuramente gradita da Macron sia perché la Francia potrebbe così ridurre costi e contingenti militari ma anche perché l’Italia porterebbe in dote nell’ambito della sua nuova strategia africana la vicinanza col Vaticano e le attività di cooperazione della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio, tese a promuovere lo sviluppo e le condizioni di vita degli abitanti dei paesi dell’area, i più poveri in assoluto su scala globale. Ma, principalmente, la missione italiana consentirà all’Eni, la principale multinazionale italiana, di estendere il suo raggio di azione anche all’Africa del Sahel, dalla quale fino a questo a momento è stata esclusa a seguito della storica influenza francese, di quella statunitense e di quella, più recente, cinese. Come riporta con orgoglio la pagina del proprio sito La nostra Africa[2] “L’Eni si è costruita forti prospettive di crescita in Africa con scoperte importanti in Egitto, Angola, Congo, Gabon, Ghana e in Mozambico. Sono 15 i Paesi in cui operiamo, in otto di loro svolgiamo attività di esplorazione mentre altri sette ci vedono impegnati anche in operazioni legati alla produzione”. Potrà quindi in futuro spartirsi le ingentissime risorse della macroregione, sedendosi alla ricca tavola del Sahel insieme alle multinazionali delle altre potenze neocoloniali. Politiche di sviluppo lasciate alla cooperazione con finanziamenti di scarsa entità da un lato, pesante saccheggio di risorse da parte delle multinazionali dall’altro. Briciole contro ingenti profitti, è questa la triste realtà sottostante la politica interventista nell’area del Sahel giocata sulla pelle di milioni di disperati in fuga dai disastri iniziati nell’era del colonialismo e che continuano ad essere riproposti in nuove versioni. Questi i connotati delle missioni di dialogo, amicizia e pace 2.0. Andrea Vento – 27 dicembre 2017 Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati