R.Ricci, Filef Nazionale – Bozza non corretta
Circolo Carlo Levi / AWO Berlino 23 Settembre 2018
Cari amiche ed amici, è un piacere avere questa occasione di nuovo incontro e di riflessione comune con voi, dopo quella di alcuni anni fa in Italia.
Nel frattempo la situazione sociale e politica è in rapido cambiamento in tutti i paesi e ci troviamo di fronte alla riemersione di fenomeni di xenofobia, razzismo e chiusure identitarie un po’ dovunque. In Italia, il sistema politico che ha retto il paese per oltre 20 anni in un’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra è miseramente crollato nelle elezioni dello scorso 4 marzo. L’opinione pubblica si è massicciamente indirizzata verso forze politiche in parte nuove che hanno raccolto gli elementi di scontento e di protesta, di rancore sociale, e il cosiddetto bisogno di “sicurezza” e “protezione” che emergono da gran parte della popolazione. Dopo circa 4 mesi dal suo insediamento, il nuovo e governo “giallo-verde” (dove per giallo si intende il Movimento 5 stelle e per verde la Lega), pur nelle sue forti contraddizioni, disomogeneità e atteggiamenti demagogici, ha il consenso del 65% dell’elettorato potenziale. Quindi la base sociale che ne ha consentito la nascita, si è ulteriormente ampliata. Le forze progressiste e di sinistra si trovano in una situazione di ampio disorientamento e si può anche dire, in una strutturale incapacità di imbastire una opposizione credibile e coerente. Tra sette mesi avremo l’appuntamento delle elezioni europee ed è facile ipotizzare che gli equilibri interni al Parlamento Europeo saranno quantomeno scossi. Tra le questioni che fanno volare le forze delle nuove destre in tutti i paesi c’è sicuramente “la questione immigratoria”. Essa viene usata come elemento di ricomposizione e di compattazione di un blocco sociale aggredito dalla grande crisi economica che ormai ha superato i 10 anni, e individuata come uno dei principali rischi per coloro che percepiscono il futuro in una dimensione di instabilità, di precarietà, di insicurezza sociale e di vita; si tratta della maggioranza delle persone. Le sinistre non sono in grado di ribaltare e di rendere egemone una lettura diversa: la creatura che l’Europa ha partorito, non è frutto dell’invasione dei nuovi barbari, ma di una crisi capitalistica che in questi anni ha trasferito immense ricchezze in sempre meno mani e ha, parallelamente, impoverito la grande maggioranza delle persone. Viviamo cioè un classico momento di “spostamento”, in termini psicosociali, e di fuga dalle ragioni reali delle contraddizioni, alimentata anche da una narrazione mediatica ad hoc. Ed anche se in molti possono condividere e condividono una lettura critica della realtà e sanno chi sono i responsabili della crisi, la immediatezza dei bisogni del presente e la difficoltà di vedere la possibilità di un mutamento strutturale a breve termine, fanno sì che una alternativa di sinistra non emerga. Anche perché le forze di centro-sinistra sono individuate, a ragione, tra le responsabili dello stato di cose presente. Pur nella sua gravità, il momento storico che attraversiamo è opportuno per riprendere una riflessione e una discussione, da tempo abbandonata e marginalizzata; anzi, si tratta forse di una necessità fondamentale se vogliamo recuperare efficaci strumenti di azione sociale e politica. In questo senso, vi propongo una possibile lettura degli eventi a partire proprio dalla questione migratoria, nelle sue due componenti, immigrazione ed emigrazione che si sono sviluppate e si declinano diversamente in ciascun paese di questa nostra Europa. Per esempio per l’Italia non è solo importante il fenomeno immigratorio, ma anche la nuova emigrazione italiana, che è una delle questioni centrali del lavoro che ha portato avanti in questi anni la Filef fin dai primi anni di questo decennio, da quando cioè l’emigrazione dall’Italia ha ricominciato a crescere sensibilmente fino a raggiungere negli anni che vanno dal 2013 al 2017, circa 300mila espatri all’anno: una quantità che non si registrava dagli anni ’60 del ‘900. Circa un quarto di questi espatri sono arrivati in Germania e un quinto in Gran Bretagna. I nuovi flussi in uscita sono costituiti prevalentemente da giovani con livelli di formazione mediamente elevati (circa il 30% di laureati e il 35% di diplomati). Le istituzioni e la politica italiana non ha ancora preso in seria considerazione questo fenomeno; tantomeno le istituzioni europee. Perché bisogna ricordare che la nuova emigrazione parte non soltanto dall’Italia, ma anche dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia e da tutti i paesi dell’est-Europa. E va essenzialmente verso il centro-nord del continente, cioè verso la Germania, la Svizzera, la Gran Bretagna, l’Olanda, il Belgio e la Francia, oltre che verso il Nord America, l’Australia e ad alcuni altri paesi dell’est asiatico. L’Europa non si occupa della questione perché si tratta, formalmente, di “libera circolazione”; noi pensiamo che invece questa circolazione non sia così libera come si vuol dare a credere, ma sia piuttosto alimentata dai grandi movimenti e concentrazione di capitali e dal parallelo riposizionamento delle economie nazionali in questi anni di crisi globale. La nuova emigrazione inter-europea è un esempio valido di cosa accade quando a ‘governare’ ci sono solo i mercati e la politica non fa il suo dovere di governance positiva, cioè di riequilibrio tra ragioni di scambio e di coesione sociale di uno spazio comune. Per quanto riguarda l’Italia, si tratta di una entità che è il doppio ed oltre degli attuali arrivi di profughi e migranti economici, ovvero dell’immigrazione nel suo complesso, sulla quale si concentra la discussione politica e istituzionale nei modi che abbiamo accennato. La presenza italiana all’estero, riferendoci ai dati delle anagrafi consolari, ha ormai superato nettamente lo stock di immigrazione (che è di circa 5,2 milioni di immigrati), raggiungendo i 5,7 milioni di emigrati, con un aumento del 100% negli ultimi 15 anni e di oltre un milione e centomila solo negli ultimi 5 anni. A questi è verosimile che bisognerebbe aggiungere un altro milione ed oltre di giovani e meno giovani che, per ragioni a noi note, non vengono censiti dalle statistiche. Stiamo dunque parlando di circa 7 milioni di italiani tra vecchia e nuova emigrazione, cioè di oltre il 10% della popolazione italiana. Mentre la somma di immigrati ed emigrati raggiunge circa il 20% dell’intera popolazione del paese, a conferma che l’Italia è un crocevia migratorio con caratteristiche uniche nel panorama europeo, mentre si situa all’8° posto nel mondo per entità di flussi di emigrazione in uscita. Di fronte a questi dati è davvero sorprendente e per certi versi incomprensibile che la discussione pubblica sui movimenti migratori si sviluppi nei modi che conosciamo e che, allo stesso tempo, si ignori completamente la dimensione della nuova emigrazione italiana che, come voi capite, costituisce una grande questione nazionale perché, se se ne vanno centinaia di migliaia di giovani laureati, questo rappresenta un costo molto alto per il paese che ha investito le sue risorse nella loro formazione ed educazione. Secondo l’OCSE, il costo sostenuto dall’Italia per la formazione di un giovane fino alla laurea, si aggira intorno ai 170-180 mila Euro. Il costo di un ricercatore è invece di circa 220 mila Euro. Se aggiungiamo i costi sostenuti dalle famiglie, arriviamo a circa 250 mila euro per un laureato e a 300 mila per un dottore di ricerca. Proviamo ora a fare una moltiplicazione, ipotizzando che il flusso migratorio di uno soltanto degli anni presi in considerazione, si insedi stabilmente all’estero: se dei 300mila italiani emigrati soltanto nel 2016, un terzo, cioè circa 100mila erano laureati, il valore trasferito dall’Italia ai paesi che hanno accolto questi giovani è pari a circa 17 miliardi di Euro. Se vi aggiungiamo i diplomati arriviamo a circa 25 miliardi. Se vi aggiungiamo i non diplomati, arriviamo a circa 30 miliardi di investimento pubblico. Se vi aggiungiamo anche i costi sostenuti dalle rispettive famiglie dei nuovi migranti, il valore del “capitale umano” trasferito senza alcuna compensazione si avvicina ai 50 miliardi. 50 miliardi è una cifra che corrisponde al 3% del Pil italiano. Naturalmente, questo calcolo, ponderato rispetto ai costi di formazione in ogni paese, ha una valenza per tutti i paesi di emigrazione, siano essi europei o extraeuropei e serve solo a dare un’idea dell’immenso trasferimento di risorse che avviene con i processi migratori. Da questo calcolo si può procedere a quello delle mancate entrate fiscali e della riduzione di domanda che si registra nei paesi di emigrazione e al parallelo amento degli stessi valori che invece avviene nei paesi di immigrazione. Cioè all’evoluzione o involuzione del PIL e ai tassi di sviluppo, quindi ai tassi di produttività delle economie donatrici o fruitrici dei flussi migratori. Si tratta di valori la cui somma complessiva può dare dei risultati impressionanti. E’ indubbio che essi allargano le forbici e i differenziali già esistenti tra queste categorie di paesi e che innescano una spirale che continua nella stessa direzione: a minore sviluppo segue generalmente maggiore emigrazione. Con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità della vita nei territori e nei paesi che erogano ad altre aree le proprie risorse umane. Far conoscere l’entità e le caratteristiche della nuova emigrazione inter-europea può quindi costituire oggi un elemento importante per consentire una discussione pubblica sui fenomeni migratori più equilibrata e più fondata di quella a cui stiamo assistendo nei diversi paesi europei e a ridurre quindi le tendenze razziste e xenofobe. E consente di riposizionare il dibattito sulle classiche direttrici del rapporto tra centro e periferie, tra sviluppo e ritardo di sviluppo, indagandone le cause e i possibili rimedi. Recentemente, a metà di giugno scorso, è stato pubblicato sul periodico Le Monde Diplomatique nelle varie edizioni nazionali, un dossier sull’evoluzione demografica e sui movimenti migratori in Europa. Si tratta di uno studio realizzato da ricercatori francesi estremamente significativo e per molti aspetti inquietante. (“Dossier: Uno sconvolgimento demografico in Europa” – Le Monde Diplomatique, 15 Giugno 2018) Da questo studio emerge che negli ultimi trenta anni, cioè dopo la caduta del muro che ha diviso questa città, a causa del combinato disposto di decremento demografico e di nuova emigrazione, la popolazione di quasi tutti i paesi dell’est europeo e dell’Europa mediterranea si è ridotta drasticamente: l’Ucraina, ad esempio, ha perso circa il 20% della sua popolazione (9 milioni di abitanti), la Romania, il 14% (3,2 milioni), la Moldavia circa il 17%, la Bosnia il 20%, la Bulgaria e la Lituania circa il 21%, la Lettonia oltre il 25%. I paesi dei Balcani, pur avendo un incremento demografico positivo, hanno registrato tassi di emigrazione enormi, fino al 37% dell’Albania. I tassi di emigrazione censiti in questi paesi sono superiori a quelli africani e si situano tra il 10 e il 18% delle rispettive popolazioni. Nello stesso periodo, i paesi centro europei (Francia, Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Gran Bretagna) hanno visto crescere o stabilizzarsi la propria popolazione grazie essenzialmente a questi movimenti inter-europei, i quali costituiscono i due terzi del complesso dei movimenti migratori (solo un terzo proviene infatti da paesi extraeuropei): negli stessi ultimi 30 anni, la Francia è cresciuta di 9 milioni di abitanti (cioè la stessa quantità persa dall’Ucraina: trenta anni fa Francia e Ucraina avevano più o meno la stessa popolazione), mentre la Germania ha avuto un saldo immigratorio positivo colossale: 10 milioni di persone, in gran parte di lavoratori immigrati provenienti, per i due terzi, da altri paesi europei. Per mantenere stabile la sua popolazione sugli attuali livelli, in Germania, si prevede di far entrare nei prossimi 30-40 anni, altri 20 milioni di lavoratori, in modo da ottenere un saldo positivo di ulteriori 10 milioni di persone. I paesi mediterranei, tra cui l’Italia e la Spagna, hanno contenuto parzialmente la perdita di popolazione solo grazie all’arrivo di immigrazione prevalentemente dall’Africa, dall’America Latina e dal Medio Oriente, mentre hanno ceduto consistenti flussi di emigrazione agli stessi paesi del centro nord Europa. L’Italia, come ha sostenuto Enrico Pugliese nel suo ultimo libro “Quelli che se ne vanno” è diventata una sorta di crocevia migratorio, con arrivi dalla costa sud del Mediterraneo e partenze verso il nord Europa che, dal 2013 in poi, risultano, come detto, nettamente superiori agli arrivi. Sono evidenti in queste cifre, la profondità degli squilibri economici, sociali e territoriali a livello continentale che, in mancanza di interventi, sono destinati ad aumentare. Squilibri improvvidamente sottaciuti e la cui tendenza sta disegnando un nuova geografia. La sostenibilità e la coesione del quadro comunitario risulta molto improbabile se si pensa che negli scenari che vengono presentati, paesi e territori già aggrediti da forte decremento demografico ed emigrazione, sono destinati a perdere, già nel prossimo decennio ulteriori quote di popolazione attiva: nel 2030, secondo il rapporto che ho citato, “un quarto della popolazione della Croazia potrebbe scomparire”. Paradossalmente, anche i Länder della ex Germania Orientale potrebbero vedersi ulteriormente svuotati di popolazione a vantaggio delle regioni dell’ovest del paese che hanno già aspirato molta della sua popolazione dopo la riunificazione. Per l’Italia gli scenari sono altrettanto drammatici: lo Svimez (un centro di ricerca delle imprese del meridione italiano), fin dal 2015 ha previsto la perdita di 5,5 milioni di persone nel sud del nostro paese al 2050-2060. Recentemente l’Istat (Istituto nazionale di statistica italiano) ha addirittura aggravato questa previsione portandola a circa 7 milioni di persone per l’intero paese, alla stessa data. Le prospettive italiane risentono anch’esse di movimenti di emigrazione interna da sud verso nord che si aggiungono a quelli verso l’estero; il meridione ne paga e ne pagherà quindi le maggiori conseguenze. Già oggi ci troviamo di fronte a situazioni impressionanti che riguardano diverse aree interne dell’appennino italiano: da uno studio realizzato lo scorso anno da Carmine Nardone e Grazia Moffa (Cedom Università di Salerno), nella fascia di paesi della provincia di Benevento fino ai 10.000 residenti, si è registrata una perdita di popolazione che varia tra il 30% e il 35%, solo nel breve spazio di tempo del quinquennio 2011-2016. Siamo di fronte a dimensioni davvero ragguardevoli, rispetto alle quali la politica appare del tutto assente. Sia a livello nazionale che europeo. Gli effetti che possono discendere da questa evoluzione sono tragici per i territori e le società coinvolte dai nuovi esodi, ma altrettanto significative e problematiche saranno le dinamiche che coinvolgeranno i paesi accettori dei nuovi flussi. Anche la crescita di xenofobia e razzismo in Europa è in buona parte un esito di questi fenomeni. E’ significativo notare come la intensità di xenofobia e razzismo si manifesti maggiormente nei paesi e nelle aree coinvolte da flussi emigratori piuttosto che da flussi immigratori. Un esempio è costituito dai paesi del cosiddetto Patto di Visegrad e un altro da ciò che accade nei Länder della Germania dell’est rispetto a quelli dell’ovest. Sono cioè gli enormi squilibri economici e sociali ad alimentare e a sostenere la nuova (ma antica) narrazione politica delle destre alla conquista dell’egemonia in tutta Europa. Su questo e su tutto il resto che ne consegue, la riflessione dovrebbe essere profonda, come altrettanto profonda dovrebbe essere l’inversione di tendenza richiesta alle istituzioni e alla politica. E’ il declino economico e il degrado sociale in interi paesi o territori e soprattutto la mancanza di speranza in un diverso futuro a creare rancore e risentimenti, chiusure identitarie e nuovi muri. Eludere una discussione sulle reali cause di questi esodi e dei decrementi demografici che li accompagnano dentro la nostra civile Europa non contribuisce a emancipare la discussione pubblica, anzi ne aggrava i termini con conseguenze sempre più gravi. E dunque, se le sinistre in Europa non saranno in grado di riformulare strategie di riequilibrio economico e di coesione sociale adeguate a queste enormi contraddizioni create dalla ampia libertà concessa “ai mercati” e “ai capitali”, il destino che si delinea per le sinistre in Europa (e per l’Europa nel suo complesso) sarà quello di un grande futuro, ma purtroppo “alle spalle”, come nella geniale battuta di un grande attore italiano, ma di origine tedesca, Vittorio Gasmann. Rodolfo Ricci Berlino 23/9/2018