“L’Italia è paese di mare e ha sempre accettato la sfida del mare. L’evasione dalla terra ferma è una vocazione”. Si apre con queste parole un interessante libro di Ludovico Incisa di Camerana, “Il grande esodo ”, che ripercorre la lunga storia delle migrazioni italiane fin dai tempi dell’impero romano.
Prendo a prestito questo suo incipit per sottolineare un tratto caratterizzante l’identità nazionale italiana, l’emigrazione appunto, che è anche bisogno insopprimibile dell’uomo. Di cos’altro è figlia, se non di questa spinta a muoversi, quella che oggi chiamiamo globalizzazione, intesa come intensificazione degli scambi internazionali, dell’interdipendenza sociale, delle culture, delle politiche e delle economie, delle tecnologie. Seguendo questo ragionamento, le migrazioni sono al medesimo tempo causa ed effetto della globalizzazione, sia sociale e culturale che economica. E gli italiani (prima ancora dell’Italia) sono i principali protagonisti storici di questo fenomeno, fin dai tempi più antichi. Sempre Incisa di Camerana, infatti, ricorda come “Roma diventa impero seguendo le vie d’espansione dei suoi sudditi romani e italici. La guerra di Numidia contro Giugurta è provocata dal massacro dei mercanti italici installati sulle coste africane”. E, con un salto di tempo, il secondo, vero, impero italico, dopo quello romano, in questo senso diventa “l’impero del mare o gli imperi delle repubbliche marinare e comincia con la riconquista del Mediterraneo”. Ecco, quindi, che il mondo moderno, come lo vediamo e conosciamo oggi, ha radici antiche e terreno fertile nella nostra Penisola, nelle nostre genti, nei nostri migranti. Perché di migranti si trattava, prima che di conquistatori. È migrante Cristoforo Colombo, che segue la trafila di tutti gli emigrati: prima trasferendosi a Lisbona dal fratello, poi inserendosi nella collettività genovese, in seguito sposando la figlia di un altro migrante genovese diventato benestante, successivamente trasferendosi a Siviglia, dove trova il modo di convincere i reali a finanziare una sua spedizione con l’obiettivo (o solo la scusa per prendere il mare, come teorizza Guccini nella sua Cristoforo Colombo) di trovare una nuova rotta per l’Oriente. Quindi progetto commerciale, non politico e di conquista. Come Colombo non sono conquistatori gli italici che in due secoli hanno scoperto la Cina, l’Africa, l’America: Giovanni e Sebastiano Caboto, Giovanni da Verrazzano, Antoniotto Usodimare, Amerigo Vespucci e Antonio da Noli. Nessuno conquistatore e tutti marinai, migranti, viaggiatori e scopritori, con alle spalle finanziatori italiani e non, che creano le premesse di una organizzazione geograficamente ed economicamente organica del mondo italiano all’estero. Organizzazione che per un certo periodo funzionò in raccordo con l’Italia (i vari stati o repubbliche italiane), con fasi di buona espansione. Il sistema cominciò a incrinarsi, invece, quando l’Italia prese a ripiegarsi su se stessa e a chiudersi verso l’isolazionismo. A partire da quel momento, come bene ha scritto Gigliola Pagano de Devitiis, l’Italia non fu più “pronta a rischiare i suoi capitali e, per così dire, giocava in difesa ”, finendo per dissolvere il patrimonio mondiale delle due Italie nei nuovi Stati nazione. Questo mondo di viaggiatori, quindi, è fatto da élite e da poveri, da esploratori o marinai, nel senso ampio del termine. L’economista e secondo presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, scriveva nel 1900 che “il primo tipo di italiano immigrato in Argentina è il marinaio ”. Per estensione ciò che Einaudi scrive per l’Argentina vale per tutta l’America Latina. Lo scrittore polacco Conrad, poi, nel suo capolavoro letterario Nostromo, ambientato nella fittizia, ma allegorica repubblica sudamericana della Costaguana, traccia il profilo e la nazionalità del suo eroe epico, del suo mito, nel ritratto di un marinaio ligure, il nostromo (nostro uomo) capataz de los cargadores (capo degli scaricatori di porto): un esule italiano, Giovanni Battista Fidanza (in italiano antico fiducia), guadagnatosi il grado di capitano per la sua fama di uomo coraggioso. Fidanza è considerato un incorruttibile e per questo motivo gli si affida l’incarico di nascondere ai rivoluzionari l'argento. Incarico che accetta non tanto per lealtà, quanto per poter aumentare la propria fama, ma all’interno del popolo e non elevandosi sopra le masse. A Fidanza Conrad affianca, nell’avventura della natura umana che è il suo romanzo, un'altra figura italiana, il locandiere ligure Giorgio Viola: eroe della spedizione dei Mille, messosi in mostra soprattutto in Sicilia, al fianco di Garibaldi. Il Viola di Conrad è inevitabilmente una figura romanzata, inseparabile dal ricordo delle antiche gesta, da una Bibbia in italiano e da un fucile, “a difesa del proprio onore”. Viola è dunque un garibaldino idealista, “campione dell'umanità oppressa”, un disinteressato “altruista” . Ecco, quindi, nello scrittore naturalizzato inglese, che le due figure di Fidanza e Viola si completano tratteggiando il carattere italico, incarnato dai migranti che muovono dal Vecchio al Nuovo Mondo. Coesistono in tali figure gli alti ideali patriottici e la ricerca di un mestiere qualunque per sopravvivere; l’ambizione di “far fortuna” e il barcamenarsi giorno per giorno. Tutto questo trova sintesi e si fa prototipo nell’Eroe dei due mondi per eccellenza: Giuseppe Garibaldi. Ecco, dunque, che storia e mito dell’italiano nel mondo si fondono, diventano percezione diffusa, epopea, trovando nell’esotica, sterminata e viva America Latina lo scenario perfetto. Laggiù, meglio che in ogni altro luogo, realtà e finzione, mito e storia, diversità e similitudini si fondono. Ecco che il Subcontinente diventa l’anima più vera dell’Italia fuori dall’Italia, paradigma dell’altra Italia, ritratto della sua storia, della biografia del nostro Paese. E non si limita a esserlo nei libri di storia e nella letteratura, ma lo è concretamente nella cronaca, nella quotidianità dei suoi milioni di italiani e italodiscendenti. O almeno lo è stato, quando in tempi passati l’emigrazione italiana ha svolto un importante ruolo di supplenza rispetto all’Italia di dentro, contribuendo significativamente a innescare nello Stivale sviluppo economico e infrastrutturale, omogeneità e identità nazionale, a dispetto dello stereotipo di una emigrazione stracciona e miserabile del nostro proletariato nel mondo, che pure esisteva ed era consistente. Quella stessa emigrazione che con sacrificio, scontri durissimi e lavoro lavoro lavoro, ha contribuito a costruire città e nazioni, imponendosi stabilmente come elemento di sviluppo (in molti casi nella classe dirigente) e non solo come manodopera usa e getta. Oggi, sembra venuta meno quella “alleanza” tra Italia e l’Altra Italia. Sembriamo nuovamente ripiegati, rinchiusi dentro i confini nazionali come nel XVII secolo. Invece proprio oggi, al culmine della globalizzazione, fatta di connessione digitale, di trasporti veloci, di capitali che si muovono senza frontiere con un clic, di potenze come gli USA di Trump che scelgono nuovi protezionismi e dazi, di un’Europa economica e politica a rischio dissoluzione sulla spinta del gruppo di Visegrád, di contraddizioni economiche e sociali, di conflitti culturali, l’Italia avrebbe bisogno più che mai di riconoscere e riabbracciare la propria storia, la natura, le inclinazioni, il rapporto naturale e storico col Subcontinente, quello più progressista, che c’è, esiste. Dovrebbe rilanciare un piano strategico, culturale ed economico, con quel Continente, fatto di una seria riforma della cittadinanza, alla quale corrisponda una seria politica estera e di proiezione internazionale del Paese e una conseguente politica economica. L’impressione che si ha è che oggi manchi proprio una riflessione di questo tipo e di ampio respiro e che, al contrario, ci si lasci trascinare solo dall’emergenza politica quotidiana, fatta di manovre finanziarie, equilibri di Governo (tutti i governi dagli anni Novanta a oggi), piccoli interessi di gruppo e corporativi. Ultimo, dal 2006 in poi, quello degli eletti all’estero nel Parlamento italiano i quali (in alcuni casi per interessi e demeriti propri, in altri perché non valorizzati a dovere dai Partiti italiani e dal Parlamento nella proiezione internazionale che proprio loro potevano rappresentare come valore aggiunto) non hanno svolto la funzione che potevano e dovevano esercitare per la competizione italiana nel contesto globale. Né hanno espresso le potenzialità che avrebbero in quel rapporto di alleanza tra Italia di dentro e Italia di fuori. Oggi, poi, viviamo una situazione paradossale, che si esprime soprattutto con gli italiani in America Latina. Ci troviamo di fronte a un cambio storico di paradigma politico-istituzionale. Infatti, il sottosegretario di Stato per gli italiani nel mondo è un italoargentino di seconda generazione eletto all’estero, nato in Argentina e con doppia cittadinanza, Ricardo Merlo. Un parlamentare che vive nel Paese con il maggior numero di italiani all’estero e di italo discendenti, quindi non solo la più forte espressione cosmopolita storico-culturale di quella vicenda italiana e umana di cui ho detto sopra, collocato nella nazione e nel Continente più italiano del Pianeta, ma anche una delle più esemplari espressione degli effetti della globalizzazione, che consente di avere un cittadino argentino, perfettamente inserito nella comunità in cui è cresciuto, coltiva le proprie relazioni sociali e i propri interessi economici, che rappresenta il Parlamento, il Governo e le istituzioni di un altro Paese, l’Italia, dall’altra parte del mondo. Il paradosso sta nel fatto che Merlo esercita questa rappresentanza culturale e globale in sé aperta in un Governo reazionario che si definisce sovranista, che guarda alla politica di Trump con i suoi dazi commerciali, a quella di Orbàn nell’approccio alle politiche dell’immigrazione, a riforme della cittadinanza limitate all’esclusività dello ius sanguinis, con tutte le contraddizioni che ciò porrà inevitabilmente . Per contro, accade che vi sia oggi un altro parlamentare italo discendente, Fausto Longo, sempre eletto in America Latina e residente in Brasile, all’opposizione del Governo nel Parlamento italiano e candidato al Parlamento brasiliano nelle elezioni dello scorso 7 ottobre, che sarebbe potuto diventare contemporaneamente parlamentare federale del Brasile qualora fosse stato eletto e trovarsi nella situazione di rappresentare due Stati in due continenti. Sono questioni delicate, situazioni che aprono approcci nuovi, complessi, sia nell’interdipendenza degli Stati e delle società nella globalizzazione, sia sul piano culturale dell’Italia e del suo mondo migratorio. Come sempre, due sono gli approcci possibili: uno progressista, che fa perno su un progetto culturale e di proiezione internazionale e sovranazionale; oppure uno regressivo, che cede a una visione sovranista e nazionalista, che ridurrà tutte le potenzialità delle due Italie allo spontaneismo o al prevalere di interessi organizzati. Questa sarebbe una grande occasione sprecata per l’Italia e per le sue comunità italiane nel mondo dopo dodici anni dalla istituzione della Circoscrizione estero. Sta dunque al Governo e, principalmente, al nuovo Sottosegretario Merlo, promuovere oggi una serie di grandi momenti (istituzionali e aperti) di riflessione culturale, politica, economica su cosa siano state e sono le nostre migrazioni e sul rapporto tra le due Italie, per fare in modo che l’attuale cambio di paradigma non rimanga solo un’operazione di immagine. Soprattutto per gli italiani in America Latina. (DA fONDAZIONE cASA aMERICA -Eugenio Marino)