25 Ottobre, 2021  Dedicata ai nostri connazionali in Svizzera l’ultima di una serie di ricerche curate dal Centro Studi Idos per la rivista “Dialoghi Mediterranei” e finalizzate a riflettere sulla “italianità all’estero”, in vista della Commissione continentale Europa e Africa del CGIE a Basilea il 28 29 30 ottobre 2021.

Il Centro studi e ricerche Idos, affidando l’incarico al suo presidente onorario Franco Pittau, da due anni sta pubblicando sulla rivista “Dialoghi Mediterranei” ricerche dedicate ai Paesi che hanno costituito il maggiore sbocco dell’emigrazione italiana. Questo impegno completa quello, a carattere più generale, realizzato nel 2020 da Idos con la monografia “Gli italiani all’estero: collettività storiche e nuove mobilità”. In questi saggi, premessa una sintesi storico-statistica sui flussi iniziati dopo l’unità d’Italia fino ai nostri giorni, si cerca di porre in evidenza le dinamiche del processo d’integrazione, la situazione attuale delle collettività e le future prospettive, con l’intento di capire cosa è effettivamente l’italianità all’estero e quali siano i legami tra l’Italia, i suoi emigrati e i loro discendenti. L’ultima ricerca della serie reca il titolo Gli italiani in Svizzera, prima precari e poi inseriti: riflessioni sul passato e sulle prospettive. Lo hanno firmato, con Franco Pittau, Giuseppe Bea, già responsabile degli uffici all’estero del Patronato della CNA, e la ricercatrice Alessia Montuori, attualmente operatrice sociale in Svizzera e già segretaria dell’Associazione “Senza Confine”, mentre delle conclusioni si è fatto carico Michele Schiavone, che, oltre a essere da tempo residente in Svizzera, è segretario del Consiglio generale degli italiani all’estero. Lo studio sarà pubblicato online il 1° novembre ma, per gentile concessione della redazione della rivista Dialoghi Mediterranei, ne viene anticipata la diffusione alla stampa in previsione della sessione europea del CGIE, che si aprirà a Basilea il 28 ottobre. Il fatto che la sessione del CGIE si svolga in una città svizzera, con la partecipazione di autorevoli decisori pubblici di entrambi i Paesi, induce a sperare sia in un maggiore apprezzamento del ruolo dei migranti, da umili lavoratori nell’immediato dopoguerra e poi efficaci costruttori di un’Europa più unita, sia in uno scambio sempre più stretto tra Italia e Svizzera, accomunate anche dal fatto di essere oggi entrambe Paesi di immigrazione. Il passato, sul quale non si può più intervenire, va comunque ricordato affinché non si ripetano, sotto nuove forme, errori commessi a danno dei migranti.

ABSTRACT DELLO STUDIO

Dalla fine dell’Ottocento ad oggi si sono diretti nella Confederazione 5 milioni di italiani. I flussi furono particolarmente elevati dopo la Seconda guerra mondiale. Nel decennio 1946-55 si trattò del 26% degli espatri totali e di quasi il 50% degli espatri in Europa. Nel decennio 1956-64 circa un terzo sugli espatri totali e il 40% sugli espatri continentali riguardarono la Confederazione. Poi il ruolo di primo Paese di arrivo degli italiani passò alla Germania, pur continuando a rimanere la Svizzera una delle principali destinazioni della nuova emigrazione. Fino al 1964, anno della firma del secondo accordo bilaterale sul collocamento della manodopera, la situazione degli italiani fu segnata da una estrema precarietà e da un cumulo di restrizioni. Gli italiani erano considerati non solo stranieri ma anche “estranei” per effetto di una storica “anti-italianità”, già evidenziata, fin dall’inizio dei flussi, dalle rivolte popolari contro gli italiani, scoppiate a Berna e a Zurigo (rispettivamente nel 1893 e nel 1896). L’accordo del 1964 costituì la base per dare inizio all’inserimento stabile degli italiani, facilitando l’arrivo dei loro familiari. Ma il cammino fu tutt’altro che facile e fu anche messo in forse dal referendum promosso da James Schwarzenbach nel 1970, che esprimeva la ricorrente paura degli svizzeri di essere sopraffatti dagli stranieri (il cosiddetto “inforestieramento”). Questa paura si è manifestata ancora una volta nel 2014, anno in cui un altro referendum (questa volta convalidato dai votanti) intese ridurre rigidamente l’afflusso degli immigrati. Rimane sempre lo stesso il dilemma di fondo: da un lato, lo straordinario benessere svizzero non sarebbe stato possibile senza una elevata presenza straniera; dall’altro, questa presenza è vista socialmente come un disturbo di molti autoctoni. Nel tormentato periodo del dopoguerra vi furono le partenze irregolari e le permanenze non autorizzate degli italiani, la tragedia dei figli nascosti in casa per paura che fossero denunciati alla polizia o parcheggiati presso qualche istituto al confine, l’inserimento nei lavori più umili e il connesso disprezzo per questa manovalanza dalle tradizioni diverse e le immaginabili umiliazioni e deprivazioni che conseguirono nella vita quotidiana. Non mancò l’accanimento della polizia con i suoi controlli, che portò ad aprire migliaia di fascicoli intestati agli italiani perché spesso ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico, specialmente se militanti politici e sindacali. In tale contesto fu di grande aiuto l’associazionismo: dalle Missioni cattoliche italiane alle Acli, dalle Colonie libere ai Patronati e ad altre forme associative. La condizione degli italiani era destinata a migliorare ulteriormente perché la tutela, assicurata dalla contrattazione bilaterale (avviata subito dopo il conflitto mondiale da Eugenio Reale arrivato come esule e poi nominato ambasciatore a Berna), fu completata dall’adesione della Svizzera alla normativa Ue sulla libera circolazione dei lavoratori, un istituto giuridico che, entrato in vigore nel 1968 e poi successivamente perfezionato, ha restituito dignità anche ai lavoratori italiani. L’attuale collettività italiana in Svizzera conta 660 mila membri, dei quali circa un terzo possiede la doppia cittadinanza. Vanno menzionati anche i 60 mila frontalieri, che con il loro lavoro sostengono l’economia del Canton Ticino e in parte del Canton Grigioni. La ricerca promossa da Idos fa anche il punto sulla politica migratoria svizzera, nata sotto il segno della precarietà con la prima legge sull’immigrazione degli anni ’30 e rimasta tale a lungo anche nel dopoguerra. La prima deroga a tale rigida impostazione fu proprio l’accordo italo-svizzero del 1964. Anche dopo le aperture legislative a una presenza straniera stabile, non sfuggì ai politici la radicale divisione dei cittadini svizzeri su questo tema ed ebbe così inizio la strategia della gradualità. Rispetto a Paesi come gli Stati Uniti, quelli latinoamericani o, in Europa, la Francia, i percorsi di integrazione in Svizzera si sono dischiusi tardivamente, dopo gli anni ’60. Secondo gli autori della ricerca, sarà il futuro a mostrare in quale misura la presenza italiana, ampliando gli spazi del suo protagonismo, riuscirà a fondersi con la peculiarità svizzera. Michele Schiavone evidenzia come questo processo sia già in atto, poiché gli italiani sono sempre più presenti in campo parlamentare (federale e cantonale), amministrativo, professionale e imprenditoriale, il che lascia ben sperare. (Inform)