ROMA - Il Centro Studi e Ricerche IDOS, affidando l’incarico al suo presidente onorario Franco Pittau, da due anni sta pubblicando sulla rivista “Dialoghi Mediterranei” ricerche dedicate ai Paesi che hanno costituito il maggiore sbocco dell’emigrazione italiana. Questo impegno completa quello, a carattere più generale,

realizzato nel 2020 da IDOS con la monografia “Gli italiani all’estero: collettività storiche e nuove mobilità”. In questi saggi, premessa una sintesi storico-statistica sui flussi iniziati dopo l’Unità d’Italia fino ai nostri giorni, si cerca di porre in evidenza le problematiche dinamiche del processo d’integrazione, la situazione attuale delle collettività e le future prospettive, cercando di capire cosa è effettivamente l’italianità all’estero e quali sino i legami tra l’Italia, i suoi emigrati e i loro discendenti. L’ultima ricerca della serie reca il titolo “Gli italiani in Svizzera”, prima precari e poi inseriti: riflessioni sul passato e sulle prospettive. Lo hanno firmato, con Franco Pittau, Giuseppe Bea, già responsabile degli uffici all’estero del Patronato della CNA, e la ricercatrice Alessia Montuori, attualmente operatrice sociale in Svizzera e già segretaria dell’Associazione “Senza Confine”, mentre delle conclusioni si è fatto fa carico Michele Schiavone, che, oltre a essere da tempo residente in Svizzera, è segretario del Consiglio generale degli italiani all’estero. Lo studio, per gentile concessione della rivista “Dialoghi Mediterranei”, da oggi è scaricabile gratuitamente dal sito di IDOS. Abstract dello studio Dalla fine dell’Ottocento ad oggi si sono diretti nella Confederazione 5 milioni di italiani. I flussi furono particolarmente elevati dopo la Seconda guerra mondiale. Nel decennio 1946-55 si trattò del 26% degli espatri totali e di quasi il 50% degli espatri in Europa. Nel decennio 1966-64 circa un terzo sugli espatri totali e il 40% sugli espatri continentali riguardarono la Confederazione. Poi il ruolo di primo Paese di arrivo degli italiani passò alla Germania, pur continuando a rimanere la Svizzera una delle principali destinazioni della nuova emigrazione. Fino al 1964, anno della firma del secondo accordo bilaterale sul collocamento della manodopera, la situazione degli italiani fu segnata da una estrema precarietà e da un cumulo di restrizioni. Gli italiani erano considerati non solo stranieri ma anche “estranei” per effetto di una storica “anti-italianità”, già evidenziata, fin dall’inizio dei flussi, dalle rivolte popolari contro gli italiani, scoppiate a Berna e a Zurigo (rispettivamente nel 1893 e nel 1896). L’accordo costituì la base per dare inizio all’inserimento stabile degli italiani, facilitando l’arrivo dei loro familiari. Ma il cammino fu tutt’altro che facile e fu anche messo in forse dal referendum promosso da Schwarzennbach nel 1970, che esprimeva la ricorrente paura degli svizzeri di essere sopraffatti dagli stranieri (il cosiddetto “inforestieramento”). Questa paura si è manifestata ancora una volta nel 2014, anno in cui un altro referendum (questa volta convalidato dai votanti) intese ridurre rigidamente l’afflusso degli immigrati. Rimane sempre lo stesso il dilemma di fondo: da un lato, lo straordinario benessere svizzero non sarebbe stato possibile senza una elevata presenza straniera; dall’altro, questa presenza è vista socialmente come un disturbo dagli autoctoni. Nel tormentato periodo del dopoguerra vi furono le partenze irregolari e le permanenze non autorizzate degli italiani, la tragedia dei figli nascosti in casa per paura che fossero denunciati alla polizia o parcheggiati presso qualche istituto al confine, l’inserimento nei lavori più umili e il connesso disprezzo per la manovalanza, le immaginabili umiliazioni e deprivazioni nella vita quotidiana. Non mancò l’accanimento della polizia con i suoi controlli, che portò ad aprire migliaia di fascicoli intestati agli italiani perché ritenuti, specialmente se militanti politici e sindacali. In tale contesto fu di grande aiuto l’associazionismo: dalle Missioni cattoliche italiane alle Acli, dalle Colonie libere ai Patronati e ad altre forme associative. La condizione degli italiani era destinata a migliorare ulteriormente perché la tutela assicurata dalla contrattazione bilaterale (avviata dall’esule e poi ambasciatore a Berna) fu completata dall’adesione della Svizzera alla normativa Ue sulla ibera circolazione, un istituto giuridico che, entrato in vigore nel 1968 e poi successivamente perfezionato, ha restituito dignità anche ai lavoratori italiani. L’attuale collettività italiana in Svizzera conta 660.000 membri, dei quali circa un terzo possiede la doppia cittadinanza. Vanno menzionati anche i 60.000 frontalieri, che con il loro lavoro sostengono l’economia del Canton Ticino e in parte del Canton Grigioni. La ricerca promossa da IDOS fa anche il punto sulla politica migratoria svizzera, nata sotto il segno della precarietà con la prima legge sull’immigrazione degli anni ’30 e rimasta tale anche nel dopoguerra. La prima deroga a tale impostazione fu proprio l’accordo italo-svizzero del 1964. Anche dopo le aperture a una presenza straniera stabile, ai politici non sfuggì la radicale divisione dei cittadini su questo tema ed ebbe così inizio la strategia della gradualità. Rispetto a Paesi come gli Stati Uniti, quelli latinoamericani o, in Europa, la Francia, i percorsi di integrazione in Svizzera si sono dischiusi dopo gli anni ’60. Secondo gli autori della ricerca, sarà il futuro a mostrare in quale misura la presenza italiana, ampliando gli spazi di protagonismo, riuscirà a fondersi con la peculiarità svizzera. Michele Schiavone evidenzia come questo processo sia già in atto, poiché gli italiani sono sempre più presenti in campo parlamentare (federale e cantonale), amministrativo, professionale e imprenditoriale, il che lascia ben sperare. (aise 17/12/2021)