Perché l’Italia non vede la grande diaspora come una possibile risposta alla recessione demografica? “Farnesina in allarme: dal Sudamerica possibili milioni di richieste di cittadinanza per oriundi”: era questo il titolo allarmistico di un articolo apparso sul quotidiano «la Repubblica»

alcune settimane fa; qualche giorno dopo sul « Corriere della Sera », l’altro grande giornale italiano, un altro titolo riprendeva lo stesso argomento, questa volta da una prospettiva totalmente diversa: « L’Italia e la diaspora dimenticata ». Nel primo articolo l’accento era tutto rivolto agli aspetti critici e problematici conseguenti alla presenza, particolarmente in Sudamerica, di una grandissima collettività di italo-discendenti; una lettura prevalente in molti ambiti e spesso fatta propria dalla nostra diplomazia, che raramente vede questo fenomeno come potenzialmente positivo considerandolo al contrario un sovraccarico di lavoro per la nostra rete consolare. Una visione parziale, perché se è vero che i consolati all’estero soffrono da anni per una cronica mancanza di personale e a causa di una rete limitata e non in grado di offrire servizi adeguati a collettività di enormi dimensioni come quella italiana, è altrettanto vero che oggi (e grazie ad una norma da me fortemente voluta) proprio grazie alle domande di cittadinanza alcuni grandi consolati come Buenos Aires, San Paolo o Caracas incassano annualmente risorse pari o superiori alle loro spese fisse. Qualche dato ? Il Consolato Generale d’Italia a Buenos Aires soltanto nel 2022 ha percepito oltre sette milioni di euro a seguito dei servizi offerti ai connazionali (passaporti e cittadinanze, soprattutto); il Consolato di Londra oltre 5 milioni e quello di San Paolo quasi quattro. Risorse che vanno allo Stato italiano, ma che nel caso delle cittadinanze ‘iure sanguinis’ vengono restituite per una quota del 30 per cento allo stesso consolato che li ha incassati, a condizione che queste somme vengano utilizzate per ridurre le lunghe attese e migliorare i servizi ai connazionali. Ciò significa che, rimanendo ai principali consolati sudamericani (quelli che secondo l’ufficio stampa della Farnesina sarebbero “sommersi dagli oriundi”) a Buenos Aires nel 2022 sono stati restituiti due milioni e mezzo di euro, a Caracas poco meno (due milioni e duecentocinquantamila) e a San Paolo un milione e settecentomila. Considerando che il cambio in Sudamerica è nettamente favorevole all’euro e che con queste risorse vengono contrattati impiegati assunti localmente non è difficile capire che stiamo parlando di valori per nulla trascurabili e in grado di rispondere in maniera significativa alle esigenze per le quali nel 2016 il Parlamento decise di “restituire” ai cittadini queste risorse in servizi più efficienti. Un meccanismo che allora si ispirò alla piccola rivoluzione che dopo anni di attesa destinò a musei e parchi archeologici le somme incassate grazie alla vendita dei biglietti ai visitatori. Di fronte a questo quadro appare incomprensibile la difficoltà, da parte del Ministero degli Esteri, di recuperare somme esigue per finanziare il fondo che annualmente adegua i contratti del personale dei consolati all’estero o il persistere di tempi biblici per il rilascio di un passaporto o per la definizione di una pratica di cittadinanza. Ma la vera domanda, evidenziata bene dall’articolo del « Corriere della Sera », è questa: perché l’Italia, un Paese a rischio spopolamento e colpito da anni da una recessione demografica cronica non riesce a utilizzare la leva costituita dalla grande diaspora nel mondo come una delle possibili risposte alla denatalità e alla mancanza di manodopera che attanagliano il Paese? Una leva che, insieme e non in contrapposizione ad una politica intelligente, lungimirante e inclusiva rivolta all’immigrazione (‘ius scholae’ e flussi regolari dall’estero) potrebbe essere usata per affrontare il problema in maniera strutturale e non estemporanea, parallelamente alle necessarie, ma inevitabilmente lente, politiche a sostegno delle coppie e delle famiglie.