foto da emigrati.it ROMA\ aise\ - È il volto familiare di Zelia Gattai, sorridente e amoroso, il primo a tornarmi immediato e vivissimo alla memoria, nello sfogliare l’enciclopedico “Quaderno di Casa America” che da Genova celebra con una superba edizione i “150 anni e più dell’emigrazione italiana in Brasile”. Mi rivolge uno sguardo preoccupato di fronte all’evidente esitazione con cui osservo il fumante assaggio di bobò de camarao,
che il marito, lo scrittore Jorge Amado, mi ha fatto appena portare perché si deve conoscere uno dei piatti più tipici della cucina locale. “Prova: un boccone piccolo piccolo…”, mi dice lei, premurosa. Teme che l’infuocato piccante della salsa bahiana sia eccessivo per il mio palato europeo. “Jorge dice che i gamberoni vanno mangiati senza guardarli, ad occhi chiusi”, commenta. Mi sta accanto, in piedi, appoggiata a uno spigolo dell’enorme tavolo rettangolare che usano tanto per mangiare quanto per lavorare. Adesso quasi completamente coperto di fogli dattiloscritti: una prova di sceneggiatura per una telenovela destinata alla rete Globo. Al centro dell’assolato soggiorno della loro casa di rua Alagoinha, a Rio Vermelho, nella Bahia “di tutti i Santi e di tutti i peccati” avverte la voce popolare. Zelia Gattai “ha messo insieme” (lei diceva cosi…) “Anarquistas, gracas a Deus”, un romanzo che è una storia di famiglia, la sua, pubblicato nel 1979, con un successo crescente, divenuto infine un best-seller internazionale. Racconta, con un linguaggio colloquiale che svilupperà ulteriormente nei suoi successivi romanzi, una vicenda empiricamente reale sebbene a tratti possa sembrare inverosimile. È una testimonianza estrema della nostra emigrazione nei primi decenni del secolo scorso: la più idealista, che giunse a costruire delle colonie nel mezzo della foresta, in una presunta verginità naturale, nella pretesa di ricreare una perduta uguaglianza originale tra tutti gli esseri umani. Era la Colonia Cecilia, su cui è disponibile una buona documentazione, una comune che rievocava a un tempo la spiritualità dell’arcaismo indigeno e la Parigi del 1871. Una comune anarchica, appunto: una esaltazione del volontarismo. Com’era l’animo degli avi toscani di Zelia, ai quali lei guarda con l’affetto necessario a rendere credibile l’assoluta verità dell’inesauribile desiderio di fratellanza che animò parte della emigrazione. Un sentimento indispensabile per sostenere la fatica immane di costruire il nuovo mondo e il dolore dei suoi fallimenti, talora inevitabili. Realizzato da un gruppo multidisciplinare di prestigioso livello accademico e professionale, questo quaderno di Casa America sostanzia e attualizza con un’enorme e ordinatissima quantità di dati culturali, politici, economici, il realismo sociale che caratterizza non soltanto la scrittura di Zelia Gattai, bensì anche quella di Jorge Amado. Entrambi, anch’essi protagonisti d’involontarie migrazioni, imposte dai regimi politici che in diverse epoche li hanno perseguitati a causa della loro milizia comunista. Solo nel tempo si capisce, leggendo la miscellanea di memorie raccolta da Amado in “Navegacao de cabotagem”, la maturità letteraria si è sovrapposta all’attività politica. E un romanticismo denso d’ironia, sensualità e svolte melodrammatiche ha agilizzato il modernismo del periodo più ideologico. “L’onore personale è un valore in sé, sia quella che sia l’idea politica che uno professa”, aveva affermato Amado per spiegarmi l’amicizia con l’editore miliardario Roberto Marinho, proprietario del giornale e della TV Globo, conservatore e sostenitore della dittatura militare, che nondimeno durante vari mesi tenne nascosto nella sua magnifica residenza Rio lo scrittore attivamente ricercato dai servizi segreti. Anche Marinho aveva ascendenze italiane, la nonna paterna era un’emigrante toscana. (livio zanotti\aise 13/05/2024)