La crisi interna al PdL, che ha portato alla formazione del gruppo Futuro e Libertà , nasconde un’altra crisi, a mio avviso molto più seria e profonda, che riguarda il futuro del nostro sistema politico, forse anche Istituzionale se il “nuovo centro†volesse porre mano alle riforme e spingere nella direzione in questi mesi sostenuta da ApI e UdC.
La crisi vera è quella del progetto bipolare, del progetto di costruzione di una moderna democrazia, basata sia sulla riduzione del numero di partiti che sulla capacità di realizzare alleanze coese e quindi soggetti politici, anche se in coalizione, in grado di governare sulla base di un programma chiaro, preciso ed interamente condiviso. La storia degli ultimi anni dimostra l’esatto contrario. A sinistra e a destra i partiti politici sono aumentati, i soggetti politici guida-coalizione sono nati e deceduti o nella migliore delle ipotesi congelati, la guida per l’oggi è ancora da costruire e l’unico progetto chiaramente indicato, anche nel percorso, è la costruzione di un nuovo grande centro. Il Partito Democratico continua a essere l’unico autentico interprete – nonostante le difficoltà che non sono mancate – di una visione bipolare del sistema politico. Anche il Pdl – che aveva accettato questa sfida – con l’uscita dei finiani torna a vivere il periodo della trattativa continua, soprattutto sul programma e sulle scelte quotidiane. Di fronte alla possibilità di una crisi abbiamo fatto bene a chiedere chiarezza. Consapevoli che lo scioglimento delle Camere è l’atto conclusivo di una crisi e che prima di esso devono essere provate tutte le strade: lo dice la Costituzione. Consapevoli che governi di larghe intese o di transizione sono possibili a condizione che i maggiori partiti siano d’accordo, quindi anche il PdL, e che le questioni da affrontare trovino nella premessa un consenso ampio: in altre parole inutile parlare di riforma elettorale se non esiste una convergenze sul volerla fare e sul modello da adottare. Altre maggioranze, nate in Parlamento tra forze disomogenee, rappresenterebbero una soluzione impraticabile sul piano politico, un vero ribaltone, che metterebbe in discussione le stesse logiche bipolari di cui il PD ancora oggi è il miglior interprete. La strada verso le elezioni è quindi aperta, vicina, quasi inevitabile. Per ragioni politiche – fine della maggioranza – e strategiche – il logoramento non giova ad alcuno – l’unica uscita da questa crisi è rappresentata proprio dalle elezioni. Intanto il grande centro, che ha ancora bisogno di tempo per la mediazione, pratica che tende comunque a favorire i centristi, come per l’elezione di Vietti alla vicepresidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, propone la linea strategica delle larghe intese: se fosse una scelta politica percorribile, avremmo già segnali in tal senso dal PdL e soprattutto avremmo una condivisione delle priorità da affrontare. Oggi ascoltiamo le motivazioni più strane – dalle modifiche costituzionali – che condannerebbero le “larghe intese†a lavorare per almeno 18 mesi – o le ragioni dell’economia – quando fino a oggi le scelte di politica economica e le manovre di finanza pubblica sono state bocciate ampiamente dalle opposizioni – oppure la legge elettorale che – a partire dalla Lega Nord Padania – davvero pochi, nella maggioranza, appaiono interessati a modificare. Credo che la scelta del PD di rendersi disponibili al percorso istituzionale – in cui si cerchi di affrontare la crisi con soluzioni parlamentari – sia un atto doveroso e rispettoso delle Istituzioni, primo fra tutti il Parlamento. Ciò non significa essere preoccupati da un ritorno alle urne che, a mio avviso, è certo ed anche vicino nel tempo. L’alternativa a Berlusconi deve passare attraverso la fase di costruzione di un nuovo centrosinistra. Per queste ragioni è necessario ripartire dalle motivazioni insite nel progetto politico del Partito Democratico, oltre le ragioni del bipolarismo. Le elezioni anticipate sono l’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno, ma saranno la più probabile soluzione alla crisi. Il proliferare di partiti e gruppi parlamentari è l’ultima necessità per rafforzare e far funzionare meglio le istituzioni, eppure partiti e gruppi nascono ogni giorno, nonostante i parlamentari che li compongono siano gli stessi. Sul terreno delle riforme – tra cui quelle istituzionali da tutti auspicate – la parola d’ordine è evocarle per non farle. Un autentico scatto di generosità da parte di tutti potrebbe portare ad una positiva intesa per costruire un Paese diverso, migliore. Ma Silvio Berlusconi vuole il governo e lo vuole subito e lo vuole da solo, al più con il fedele alleato Bossi. Casini vuole il grande centro e la mediazione è propedeutica a costruirne le condizioni, dialogando con Rutelli e Fini. Il PD deve accelerare la costruzione del centrosinistra. In questi giorni è giusto rimettere in discussione anche il progetto politico per gli italiani all’estero – inclusa la rappresentanza. Occorre farlo con coraggio e determinazione, per fare chiarezza sulle reali intenzioni del nostro sistema politico di avere – e sostenere senza esitazione – un livello di rappresentanza parlamentare. Poi è necessario migliorare le modalità di voto. Alla fine del secondo, breve, mandato elettorale credo possa essere utile ricordare a tutti noi che la vera discussione è sulla qualità del rapporto con le nostre comunità nel mondo. Non si tratta di una pretesa eccessiva chiedere di avere sedi consolari presenti ed efficienti –perché è la presenza dello Stato italiano – parità di trattamento tra cittadini italiani, quindi diritti e doveri, ad esempio in campo pensionistico e previdenziale – perché è la Costituzione italiana che lo impone – ed investimenti coerenti nei settori commerciale, linguistico e culturale – perché lo impongono scelte logiche e razionali e conseguenti alla nostra presenza nel mondo. Rimango fermamente convinto che questi obiettivi sono importanti per l’Italia e per la sua forte presenza nel mondo, accanto ai protagonisti della storia dell’emigrazione italiana. (On. Marco Fedi )