(di Rodolfo Ricci - foto accanto)

I – Nel silenzio complice della maggioranza dei media italiani, sta ripartendo, anzi è già ripartito, un grande flusso di emigrazione dall’Italia. Per la verità esso non si era mai fermato, anche se poteva essere interpretato, fino al 2008, come normale mobilità soprattutto giovanile, che si registrava anche in altri paesi avanzati.

Dal 2010 ad oggi, il flusso di espatri è ricominciato con quantità molto significative, di cui è possibile conoscere solo per approssimazione l’entità, visto che la gran parte dei nuovi emigrati, non si iscrive o lo fa con ritardo di diversi anni, all’AIRE, l’Anagrafe dei residenti all’estero. Ma alcuni dati ed alcune proiezioni lasciano intravvedere che stiamo entrando a grande velocità in una nuova fase della lunga storia dell’ emigrazione italiana nel mondo, incentivata dalle politiche di “riaggiustamento strutturale” estremamente recessive portate avanti dagli ultimi governi e intensificatesi con il Governo Monti. Era stato lo stesso Monti, d’altra parte, a sottolineare la necessità di una “nuova mobilità internazionale” della forza lavoro italiana, fin dal suo discorso d’insediamento. Un moderno “studiate una lingua e partite” a distanza di 60 anni dal famoso discorso di De Gasperi. Non che Mario Monti sia un demone, ma nel suo limitato ricettario economico, sa bene che all’interno del quadro della recessione neoliberista che ci imporrà un duraturo declino, l’economia italiana non sarà in grado di utilizzare e di valorizzare le sue risorse, a partire da quelle umane. Meglio dunque che i giovani esuberi se ne vadano dal suolo patrio, anche per fa calare la potenziale tensione e i conflitti sociali che possono derivare da una disoccupazione giovanile che si attesta all’inizio del maggio 2012, al 36% e da una situazione generale che, stando alle esplicite ammissioni del Ministro Passera, vedono circa 10 milioni di connazionali senza lavoro o in situazioni di estrema marginalità, al di là delle statistiche ufficiali che indicano una disoccupazione complessiva del 10%. Si tratta del ritorno della classica impostazione che ha caratterizzato una buona parte della storia nazionale: grandi esportatori di made in Italy, in particolare sotto forma di muscoli e cervelli… D’altra parte, sul piano soggettivo, l’assenza di prospettive di futuro a lungo termine in cui sono compresse le realtà nazionali dei paesi sud europei, non lascia spazio ad altre ipotesi: ammesso che suicidi, precariato a vita, marginalità non costituiscano il migliore degli orizzonti, non resta altro da fare che tentare non la fortuna, ma una collocazione che consenta una vita dignitosa in qualche altro paese. La cosa non riguarda solo noi, come è noto: Greci, Portoghesi, Spagnoli non sono da meno. L’intera costa nord del Mediterraneo, oltre all’Irlanda (oltre 40.00 emigrati tra il 2010 e il 2011), ha ripreparato le valigie in massa. Soltanto verso l’Australia, sono pronti a partire almeno 40.000 greci. Nel 2010 vi sono arrivati anche 62.000 italiani. Molti con visto turistico, ma è questo il modo più facile, come dovunque, per provare a trovare un lavoro. Circa 55.000 portoghesi sono approdati in Brasile, ma non disdegnano altre nuove mete, come Angola o il Mozambico (decine di migliaia i portoghesi arrivati in questi paesi). L’ISTAT ci dice che nel decennio 2000-2010, sono andati all’estero 316.000 giovani di età inferiore ai 40 anni. Ma solo nel 2009 oltre 80.000 persone sono espatriate secondo i dati dei Comuni: + 20% rispetto al 2008. Di questi si stima che la gran parte siano giovani, di cui il 70% laureati. (Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-12-20/numeri-costi-nuova-emigrazione-173135.shtml#continue) Sempre Il Sole 24 Ore, stima alla fine del 2011, che siano stati almeno 60.000 i giovani italiani che se ne sono andati nell’ultimo anno, ma a nostro parere si tratta di una approssimazione in forte difetto, perché costruita sull’ipotesi che si iscrivano all’AIRE la metà di coloro che emigrano. Dalla nostra esperienza, quando va bene, si iscrivono all’Aire 1 su 4 persone e lo fanno comunque molto tempo dopo (talvolta anni) il loro insediamento all’estero. Dovremmo già stare dunque, nel 2011, sul livello di circa 200.000 persone che se ne sono andate in diverse direzioni: soprattutto nord Europa, grandi metropoli, come Parigi, Londra, Berlino, New York, San Francisco, ma anche medie città come Stoccarda, Colonia, Zurigo, per fare solo alcuni esempi. Poi vi è sono altre mete nuove rispetto agli ultimi anni come Brasile o Argentina, Canada, e paesi minori. Alla fine del 2012 saranno nettamente di più del 2011. Al di là di qualche provvedimento fortemente demagogico in fase di attuazione sul rientro di qualche migliaio di “cervelli in fuga”, né il governo, né i partiti, né le forze sociali e sindacali stanno monitorando con la dovuta attenzione il fenomeno, relegato, dopo gli effetti non eclatanti della discussa introduzione della Circoscrizione Estero, su un versante di nuovo folclore o gossip nazionale, quando non emerge addirittura un sensibile fastidio ad occuparsi della vicenda degli oltre 4 milioni di italiani stabilmente all’estero, del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero), dei Comites (Comitati degli italiani all’estero), dei quali recentissimamente, il Ministro Giarda ha praticamente prolungato sine die i sigilli amministrativi, (non vengono rinnovati da oltre 2 anni) comunicando che non vi sono soldi sufficienti per adempiere a quanto previsto da Leggi nazionali emanate fin da 20 anni or sono dal Parlamento. D’altra parte questa è solo l’ultima ciliegina su una torta che ha visto gli interventi per lingua e cultura all’estero, per assistenza agli indigenti, per l’informazione, per la formazione, raggiungere i livelli più basi degli ultimi 40 anni, con tagli lineari di oltre il 65%, cui si aggiunge la riduzione dei servizi e delle sedi consolari, e praticamente lo smantellamento di quanto costruito dagli stessi emigrati in decenni di impegno e lavoro volontario, con l’obiettivo di mantenere un legame, pur flebile con la madrepatria. Al punto che nelle reti associative superstiti, l’orientamento che si fa strada è quello di volgere definitivamente lo sguardo alle realtà locali e di portare a conclusione i processi di integrazione a tutti i livelli, chiudendo le relazioni con un’Italia totalmente disinteressata a questo patrimonio di relazioni umane, culturali, sociali ed economiche. Orientamento, di per sé, non sbagliato, e per le ragioni esposte, possiamo dire, quasi obbligato.

II

Tuttavia, gli eventi degli ultimi mesi e quelli che abbiamo di fronte ripropongono all’attenzione (con tutti i suoi annessi e connessi) il fenomeno di una nuova massiccia emigrazione addirittura su scala europea, anche perché altri paesi extra EU si stanno rapidamente attrezzando per accoglierla e farla fruttare all’interno dei loro programmi di sviluppo: nel mese di gennaio di quest’anno, Dilma Roussef, Presidente dell’emergente Brasile, ormai quinta potenza industriale mondiale, ha aperto all’immigrazione di 450.000 tecnici ed operai specializzati. L’Australia sta facendo altrettanto in diversi settori occupazionali. Da registrare che anche Argentina e Uruguay (sempre all’inizio dell’anno, Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay ha lanciato la proposta di portare la popolazione uruguyana dagli attuali 3,4 milioni a 5 milioni nel prossimo decennio) stanno aprendo, iniziando intanto con il favorire il rientro della propria emigrazione, a nuovi flussi di immigrazione indispensabili al mantenimento degli alti tassi di crescita che si registrano da quasi 10 anni in tutto il cono sud dell’America Latina, dopo che le politiche neoliberiste sono state definitivamente licenziate e messe fuori dall’agenda politica. Rispetto a così grandi novità, che denotano uno scenario dalle tendenze durature ancorché impensabile fino a ieri, sarebbe utile che a partire dall’associazionismo di emigrazione, passando per il mondo sindacale e dal complesso delle strutture di servizio (patronati, enti di formazione, ecc,) e di rappresentanza, ci si facesse carico di una rapida revisioni dei quadri di contesto in cui fino ad oggi si è ragionato. La FIEI intende promuovere con forza, in accordo con la CGIL e le altre organizzazioni storicamente impegnate su questo versante, un nuovo confronto sul tema, perché le dinamiche illustrate, oltre che necessitare di una responsabile risposta sociale ed istituzionale in termini di servizio e di assistenza, sono in grado di fornire un contributo non indifferente alla comprensione e alle possibili soluzioni dei problemi nazionali e all’individuazione di prospettive, al momento poco edificanti, che tuttavia si aprono per i prossimi decenni. Allo stesso tempo, si pongono tutta una serie di questioni che mettono in discussione e travalicano la tradizionale forma ed azione di rappresentanza del mondo dell’emigrazione, fondato attualmente su collettività insediate da tempo all’estero, e che, alla luce di quanto sta accadendo, necessiterà di essere radicalmente aggiornata.

III

 Sul piano dell’analisi del fenomeno, vale la pena comprendere cosa comporti, per il paese, questa nuova emorragia di giovani nel pieno dell’età lavorativa. Ciò tanto più in quanto, l’esercizio contabile di contenimento e di tagli alla spesa di questo Governo, costituisce, ancor più che per i precedenti, il nucleo stesso della sua azione politica. Vale dunque la pena evidenziare gli effetti macroeconomici della nuova emigrazione, facendo emergere valori, cifre, la cui entità è volontariamente celata. Per comprendere qual è la perdita secca ed attuale di valore economico (oltre che umano e civile) causato da questo nuovo esodo, basta fare un piccolo calcolo, riprendendo l’approccio che Paolo Cinanni, molti decenni or sono usò per illustrare l’entità economica dell’emigrazione italiana del dopoguerra: ipotizzando che per la crescita e l’educazione di un giovane da zero a 25 anni occorrono, tenendoci bassi, mediamente dai 150.000 Euro ai 200.000 Euro a carico delle famiglie, a cui dobbiamo sommare una quota pro-capite di spesa pubblica per educazione, sanità, servizi vari, ecc. (diciamo altri 200.000 Euro mediamente per chi frequenta un iter formativo completo fino alla Laurea), ogni persona con tali caratteristiche che se ne va dall’Italia costituisce una perdita secca di 350.000-400.000 Euro di investimento realizzato, pubblico e privato. Moltiplicata per 100 persone fa dai 35 ai 40 milioni di Euro. Moltiplicato per 200 mila (che è la stima realistica del numero dei nuovi espatri dall’Italia che avremo nei prossimi anni), fa dai 70 ai 90 miliardi di capitalizzazione (patrimonio umano) che se ne vanno a produrre valore e sviluppo in altri luoghi, dove, lungimiranti, li accolgono a braccia aperte. Se moltiplichiamo per i prossimi 10 anni la permanenza di questo flusso, arriviamo ad una cifra impressionante che corrisponde e anzi supera, un terzo del PIL annuale del paese (700/900 miliardi). Ma il conto non finisce qui: dobbiamo infatti calcolare che nell’ipotesi di un trasferimento stabile all’estero, queste persone resteranno produttive per un’intera vita, diciamo per i fatidici 40 anni, anche se con l’allungamento dell’età pensionabile saranno di più. Se attribuiamo ad ogni persona, una valore lordo di produzione di circa 50.000 Euro all’anno (ipotizzando stipendi medi molto contenuti, pari a circa 3.500/4.000 euro lordi al mese che un laureato può facilmente percepire all’estero), ogni persona che se ne va, si porta con sé un pil pro-capite potenziale di 2 milioni di Euro nell’arco dell’intera vita lavorativa. Moltiplicato per 200.000 persone (che se ne andrebbero in un solo anno), si tratta di 400 miliardi. Nell’ipotesi che questo flusso duri 10 anni, con la stessa frequenza annuale, si tratta di 4.000 miliardi, una cifra superiore al doppio dell’intero PIL annuale del paese. Un ottima manovra, senza dubbio !

IV

Questa trafila di conti serve a dire che la mancata positiva allocazione del fattore produttivo fondamentale, il lavoro umano, sia manuale che intellettuale, può significare la perdita di valori enormi che si sommano esponenzialmente negli anni e che possono produrre il drastico impoverimento di un territorio e di un paese. La storia del meridione italiano ne costituisce uno degli esempi più impressionanti. La storia economica di grandi paesi di immigrazione del nord Europa o delle Americhe, ne costituisce, all’opposto, l’altro lato, quello favorevole, della medaglia. I critici di questa impostazione di lettura contabile, nel passato hanno messo in dubbio che l’esodo di forza lavoro costituisse di per sé un elemento negativo rispetto allo sviluppo nazionale, arguendo che un paese con un tasso di sviluppo demografico troppo alto rispetto al potenziale industriale disponibile, doveva per forza di cose aprire al deflusso della manodopera in esubero. Inoltre, le famose rimesse avrebbero, al contrario, costituito una quota consistente degli IDE (Investimenti diretti dall’estero), che avrebbero consentito di agevolare lo sviluppo. Questo ragionamento può anche essere in parte condiviso per sistemi-paese arretrati e in cui si registri una crescita demografica eccessiva, come l’Italia del primo dopoguerra. Ma nel caso attuale, ci troviamo in tutt’altra situazione, sia rispetto ai trend demografici, sia rispetto al potenziale produttivo e industriale dell’Italia (e del Sud Europa) attuale. La verità è che la gente se ne va per il motivo opposto: il potenziale produttivo del paese è nettamente sottoutilizzato, mentre i tassi di natalità sono tra i più bassi al mondo, compensati solo, in parte, dai flussi di immigrazione. In questo senso, la progressione del declino economico diventa addirittura geometrica, né le potenziali rimesse assumono alcuna realistica possibilità di arrivare in un paese che procede verso una volontaria desertificazione. Il ragionamento fatto vale, ovviamente, anche per il versante immigrazione, rispetto ai paesi di provenienza, (i quali si possono assimilare alla situazione italiana del dopoguerra) mentre, dal punto di vista italiano, se non si è in grado – come non si è in grado per le penose politiche di immigrazione attuate in questi anni – di valorizzare in modo ottimale le competenze di questi 5 milioni di persone che sono giunte nel nostro paese, il vantaggio, è ovviamente molto relativo. Ma in ogni caso, se arriva forza lavoro di qualità medio bassa in Italia e parallelamente se ne va forza lavoro qualificata, il quadro che si sta dipingendo è quello di un paese che ha scelto di autoridurre deliberatamente le proprie prospettive e che sta importando forza lavoro a basso costo per contenere gli effetti di una competitività in settori maturi, che non riesce altrimenti a mantenere, a causa della mancanza di innovazione di prodotto e di processo e di investimenti. Sorvoliamo sul fatto che se in tale contesto si volesse trovare un punto di equilibrio tra emigrazione ed immigrazione, sarebbero necessari interventi di assistenza, formazione, qualificazione, ecc. di cui al momento, non vi è neanche l’ombra. Ci troviamo quindi di fronte ad una decrescita qualitativa obbligata ed imposta, riconducibile pienamente, se si vuole, a quanto descritto anni fa da tale K. Marx (il quale annovera tra i suoi più grandi estimatori tutta la schiera di neoliberisti accomunati, a quanto pare, nel tentativo di confermarne le tesi) in ordine alla natura del sistema economico in cui viviamo, il cui obiettivo non è quello della piena allocazione dei fattori produttivi, come vorrebbero convincerci i loro esegeti, ma quello di mantenere soddisfacente stabile il saggio di profitto, altrimenti in fatale caduta. Quando le risorse produttive disponibili sono pericolosamente in eccesso, esse vanno semplicemente distrutte attraverso le cosiddette crisi. Con ciò ne sarà anche preservato, assieme al tasso di profitto, la struttura di poteri presente (sia economica che politica), la cui pessima qualità ed arretratezza è dimostrata dal fatto che essa preferisce questo esito piuttosto che valorizzare la ricchezza dei saperi e delle competenze disponibili. Alla fine del ciclo neoliberista, assistiamo ad una fase impressionante e paradossale di vera e propria istituzionalizzazione della distruzione delle risorse umane e produttive, attraverso la pratica di riduzione massiccia e concentrata in poco tempo dei deficit e del debito pubblico. Una vera e propria guerra all’umanità, che ove fosse firmato il cosiddetto Fiscal Compact porterà ad un’ecatombe, fatta a partire dall’assunto dogmatico che il salvataggio di un sistema finanziario (manifestamente insostenibile) è prioritario rispetto alla vita della gente, degli stati, della democrazia. A nulla vale la battuta di Keynes (degli anni ’30 del ‘900) secondo il quale, per ogni sterlina di spesa pubblica risparmiata dallo Stato, si aveva come effetto un aumento amplificato di disoccupazione e di inutilizzo delle risorse produttive. In questo fosco panorama l’emigrazione è uno dei modi “soft” per addolcire e allo stesso tempo incentivare questi risultati. Peggiore sarebbe, siamo d’accordo, solo la guerra.

V

Questo schematica descrizione serve a riportare alla mente qualcosa che era ben chiaro fino agli anni ’80: e cioè che quando si parla di emigrazione si parla del cuore stesso delle dinamiche economico-sociali. Che l’emigrazione è al tempo prodotto e attore sociale. Che il suo protagonismo non è secondario solo perché non lo si vede agire sotto la punta del proprio naso. Che anzi, essendo in grado di misurarsi con dimensioni che non sono quelle di una stanzialità spesso subalterna, dispone per forza di cose di risorse interne di grande potenziale critico e politico, ancor più se si considera fondamentale, come oggi è, la dimensione globale della politica. Rispetto al territorio inteso come luogo effettivo di dispiegamento delle contraddizioni e del conflitto, che tanti affascina, l’emigrazione è il non luogo ovvero l’apertura e la comunanza di tutti i territori di partenza e di tutti i territori di arrivo, ovvero la condizione del sociale di misurarsi effettivamente e quotidianamente con la globalizzazione capitalistica e oggi neoliberista. Per ogni soggetto sociale o politico serio che miri a contrastare gli effetti perniciosi di questo modello di globalizzazione, l’interlocuzione attiva con le realtà migratorie costituisce un compito centrale. Assieme ad una battaglia tesa al cambiamento delle condizioni strutturali e politiche che determinano la nuova emigrazione, al ripristino di politiche di bilancio sensate e orientate verso un’occupazione di qualità e tendenzialmente piena, vale a dire della sconfitta del neoliberismo in Italia e in Europa, bisogna tuttavia predisporsi ad attraversare un periodo complesso e presumibilmente lungo. In questo senso, la vicinanza e l’accompagnamento, lo stimolo e la capacità di ascolto di questa realtà “extraterritoriale in movimento” che c’è già e che purtroppo crescerà, costituiscono non solo un impegno di ordine morale, di servizio o afferente alla sfera dei diritti civili e sociali (che ovviamente è una mission di tali realtà organizzate), ma una condizione di valorizzazione e arricchimento straordinario per le organizzazioni stesse a condizione di essere in grado di mantenere con essa vincoli e legami efficaci e sostanziali. Nel recente passato, questa consapevolezza si è espressa nell’approntamento e nell’ erogazione di una serie di servizi verso le popolazioni emigrate mentre si è demandata la partecipazione sindacale e politica ai movimenti dei paesi di accoglienza. La fase nuova che sta iniziando implica un diverso e più articolato atteggiamento: l’avvicendarsi sempre più rapido di crisi economiche in diverse aree del pianeta anche molto distanti tra loro e i corrispondenti movimenti migratori che ne sono derivati, prima in andata e poi in ritorno (valga qui l’esempio del cono sud dell’America Latina, da dove 15-10 anni fa si sono innescati movimenti di rientro verso l’Italia e la Spagna dei figli e dei nipoti dei primi emigrati, mentre ora si assiste di nuovo al processo inverso di re-emigrazione verso il sud del continente), lascia intendere che le migrazioni cui andiamo incontro, stante l’attuale configurazione di dis-ordine globale, saranno molto più mobili e ricorsive, implicando una serie di problematiche solo in parte conosciute, derivanti da insediamenti che non si trasformano necessariamente in compiute integrazioni in loco. Pensiamo solo cosa possa significare per i figli dei migranti l’avvicendarsi educativo-scolastici in due o più paesi, oppure a qualifiche lavorative acquisite in differenti sistemi di formazione, fino ad arrivare a processi di partecipazione sociale e politica alternata nei diversi contesti in cui si è costretti o si sceglie di vivere. Quali sistemi di accompagnamento e di servizi vanno, in questa prospettiva, strutturati ? Che tipo di reti dinamiche di assistenza e di interlocuzione vanno progettati ? E sul piano sindacale, solo per citare un esempio particolarmente significativo, come assicurare rappresentanza “a tempo indeterminato” ai lavoratori in movimento ? Se aggiungiamo che l’emigrazione in ripartenza dall’Europa è costituita in gran parte da forza lavoro ad alta qualificazione e, presumibilmente, anche ad alta formazione sociale e politica, quale rapporto qualitativo sarà necessario intrattenere con essa ? Certamente è finita l’epoca dell’emanazione dei dispacci inviati dal centro (che non esiste più), alle periferie del mondo, piuttosto, casomai, il contrario. E allo stesso tempo, un potenziale sociale e politico di questa portata non può essere messo nelle mani dei processi apparentemente anonimi della globalizzazione, guidata in realtà dall’impresa finanziarizzata e dalla sua ideologia che megafona, anche da Palazzo Chigi, che “la mobilità internazionale della forza lavoro è bella”. Si pongono, come ben si vede, una notevole varietà di riflessioni da fare, di strumenti da progettare e da approntare, di pratiche da sperimentare, in rete ed anche in collaborazione con altri soggetti presenti in altri paesi e, certamente, assieme ai futuri migranti. Un’attività che implicherebbe da subito non la miope e per molti versi sconcertante liquidazione, ma l’avvertito rafforzamento e rinnovamento di ciò che ancora esiste in termini di strutture e di patrimonio di esperienze e di saperi che, per la sua particolare storia, l’Italia possiede in questo settore, soprattutto a livello associativo e sindacale. Sarebbe singolare dover osservare, tra qualche anno, il riprodursi della nota frequenza del pendolo, cioè, in questo caso, l’affannarsi di organizzazioni e sigle varie per rimettere in piedi in quattro e quattr’otto ciò che esisteva e che nel frattempo era stato lasciato volontariamente e colpevolmente perire.