PESCARA - "Monongah: l'umanità sepolta". Questo il titolo del convegno, previsto per domani, 6 dicembre, a Pescara, organizzato dall'Ugl per ricordare la tragedia mineraria di Monongah avvenuta proprio il 6 dicembre del 1907 e nella quale persero la vita centinaia di minatori. "Questa tragedia – spiega il segretario confederale dell'Ugl, Geremia Mancini, promotore dell'evento -,

causò , secondo i dati ufficiali, la morte di quasi 400 minatori, ma alcune fonti arrivano a raddoppiarne i numeri, molti dei quali italiani, per la maggioranza molisani, calabresi ed abruzzesi. È una vicenda che merita rispetto ed attenzione e va attualizzata per far comprendere l'importanza della sicurezza e della dignità del lavoro. Questo anche alla luce di recenti tragedie, come quella dei cinesi morti nel rogo di Prato, che dimostrano che purtroppo sono sempre i più deboli a pagare, spesso con la loro vita, per colpa di chi intende speculare ed arricchirsi su di loro". All'incontro parteciperanno il dottor Silvano Console, autore del film/documentario "Monongah"; il professor Claudio Palma, autore del libro "Monongah: dal fatto al simbolo"; il dottor Antonio D'Orazio, dell'Ires-Cgil, autore del libro "L'umanità sepolta". Presente inoltre, con una folta delegazione di ex minatori, l'Associazione Culturale "Voci dalla Miniera" di Palombaro (Ch)". Durante l'incontro saranno conferiti anche i riconoscimenti "Catterina De Carlo Davià" (l'eroina di Monongah) ai Comuni di Canistro, Civita D'Antino, Civitella Roveto, che nella tragedia videro perire, nella tragedia di Monongah, numerosi loro concittadini. Il 6 dicembre 1907 nella miniera di Monongah si verificò il più grave disastro minerario della storia americana: l'incidente rappresenta anche la più grave sciagura mineraria italiana. Alle 10.30 del mattino nella miniera di carbone della Fairmont Coal Company, di proprietà della Consolidated Coal Mine of Baltimore, si verificò una terrificante esplosione. L'incidente coinvolse le gallerie numero 6 e 8 della miniera. La galleria 8 si trovava sulla sponda occidentale del fiume West Fork, la 6 sulla sponda opposta. Le due gallerie erano collegate da un tunnel sotterraneo e, in superficie, da un ponte e da un impianto di scarico del minerale. La vena di carbone Pittsburgh giaceva a meno di 70 metri dalla cima della collina su cui si apriva l'entrata principale della miniera e a circa 10 metri sotto il livello del fiume. Il boato e le vibrazioni del terreno furono avvertite a 30 km di distanza. Gli effetti più devastanti si ebbero nella galleria 8: qui un frammento di oltre 50 kg del tetto in cemento del locale motori fu scagliato sulla riva opposta del West Fork, a oltre 150 metri di distanza. Stessa sorte toccò ad una grossa parte dell'aeratore, che venne scaraventata sulla sponda orientale del fiume, piantandosi nel fango. Testimoni oculari riferirono che la vampata proveniente dal sottosuolo raggiunse i trenta metri d'altezza. L'intera collina su cui si apriva l'entrata della miniera fu violentemente scossa e dal West Fork si sollevò una gigantesca ondata che raggiunse la linea ferroviaria che correva lungo il corso d'acqua. Non ci furono superstiti: questa è l'unica cosa certa, mentre, a distanza di un secolo, non è ancora possibile stabilire il numero esatto delle vittime. Dapprima si parlò di 361, poi di oltre 500; di 620 (un addetto alle sepolture del Municipio di Monongah), e, addirittura, di 956 (un giornale del 9 marzo 1908). Le esplosioni furono causate da un accumulo di gas: il giorno precedente le miniere erano rimaste chiuse e per risparmiare energia furono spenti gli aeratori. Questo, secondo alcuni ricercatori, avrebbe determinato l'accumulo di gas alla base dell'esplosione. Quella mattina, secondo documenti della compagnia mineraria, sarebbero entrati nelle miniere 478 minatori e 100 addetti ad attività accessorie. La paga non era legata alle ore effettivamente lavorate, ma alla quantità di carbone portato in superficie. Le 171 vittime ufficiali italiane erano emigrati da località molisane (un centinaio), calabresi (una quarantina) e abruzzesi, una trentina, provenienti da Atri, Civitella Roveto, Civita d'Antino e Canistro. (aise)