Londra: giovani italiani che arrivano e che partono, in una nuova emigrazione di massa

LONDRA - “Italy is my country, London my town!” L’Italia è il mio paese, Londra la mia città. Giuliana me lo lancia di getto, con sorprendente entusiasmo giovanile. Come i tantissimi giovani che arrivano a Londra, ecco una vita che si sta costruendo su due sponde. A lei, di ritorno da un breve weekend in Italia “Com’è la gente laggiù?” provo a chiedere.

“Triste, scura, preoccupata... da far paura!”. Mi risponde, aggiungendo:“Qui la gente almeno ancora sorride. Per davvero! Di qualsiasi colore tu sia ti guarda in faccia. Perfino al supermercato la cassiera ti rivolge un “How are you?”(Come stai) senza conoscerti affatto. Sono le buone maniere che umanizzano la vita. “Da noi si grida per ottenere” mi fa, “qui, no, solo con le buone maniere.” Un altro mondo. Un’altra cultura, senz’altro. Aperta alle culture del mondo, aperta agli altri. Thomas, anche lui sbarcato recentemente: “C’è un mondo di bella gente. Molto disponibili.Ti danno sempre una mano.” E cita il caso di un nigeriano, che lo accompagnava ieri fino a salire sul bus... E Andrea, qui da nove mesi, come si trova? Si è innamorato della città. “Anche se la vita è dura, - aggiunge subito - qui si combatte per davvero!” Tanti fanno ritorno, lottare non è il loro destino. D’incanto, tutti questi giovani si accorgono terribilmente della chiusura in cui siamo avvolti in patria. Cresciuti attorno al campanile. Campanilismo, giustamente, è intraducibile in inglese, non c’è. E Londra per loro è un grande porto di mare. In ogni senso. Manuela, sui trent’anni, da Torino, dove cercava lavoro da quattro anni, mi declama: “Ventenne, bella presenza, con esperienza. Questi i soliti annunci da noi!” Qui, invece, nel curriculum non si mette la foto per non influenzare l’esaminatore. In Francia si omette perfino il nome. Per non essere eliminati, solo a causa del proprio nome come Mohammed. La bella presenza, l’apparire per noi, invece, resta un mito. È la logica del piacere e del compiacere - al posto del merito - che ci danna. Ma così non si va lontano. Pietro, invece, va ben lontano, ha perfino male ai piedi. Ha fatto il giro di mezza Londra presentandosi e distribuendo il suo curriculum. E ascolta Filippo arrivato cinque anni fa e le sue raccomandazioni: “Non demordere, insisti. Questa non è una città, è una metropoli. Devi mettere anche il volontariato in associazioni nel tuo curriculum: qui conta tantissimo!” È vero, qui si guarda nel profilo anche l’apertura di interessi, l’impegno sociale. Ma guai se questi giovani leggessero le parole di Mandela davanti al parlamento di Westminster, ai piedi della sua statua con una montagna di fiori: “Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi, ma i cittadini più umili.”Arrossirebbero di rabbia per la nostra patria! Anna, invece, frequenta London School Economics, LSE in sigla, una prestigiosa università di Londra. È un po’turbata dall’ultima lezione, che ritrova poi puntualmente in un articolo su internet. Per i suoi insegnanti, infatti, l’Italia è diventata un caso da manuale. Un esempio paradigmatico. La storia di una nazione prosperosa, imprenditoriale e creativa, che in vent’anni ha saputo dilapidare tutto il suo patrimonio. E si avvia decisamente verso la terzo-mondializzazione. “È un vero peccato!” sa solo aggiungere, con voce amara. Per trovare le cause, tra l’altro, ci aiuta una convinzione del leader sudafricano che il mondo ora rimpiange: “I veri leaders devono essere in grado di sacrificare tutto per la loro gente!” All’opposto di quanto avvenuto in Italia. A parte uno di nome Francesco.(Renato Zilio*-Inform) *Missionario scalabriniano a Londra, autore di “Dio attende alla frontiera” (Emi)