dedita alle estorsioni, alle rapine e ai sequestri di persona e in seguito - tra il ’45 e il ’46 - si allea al gruppo indipendentista siciliano; un mix tra monarchici, neo fascisti e anarchici. Appoggiato dall'Esercito volontario per l'indipendenza della Sicilia (EVIS), che gli conferisce il grado di “Colonnello”, Giuliano da semplice bandito a metà tra “Tiburzi” e “Robin Hood” si trasforma lentamente in braccio armato al servizio dei poteri forti dello Stato. Non solo soldi e danari da strappare con la forza ai ricchi proprietari terrieri ma anche lotta armata anticomunista, di chiaro stampo politico. Nell’immediato dopoguerra c’è caos in Sicilia, terra controllata dagli anglo-americani (considerata la “portaerei” del Mediterraneo), ancora profondamente monarchica e in cerca di una propria autonomia, dove Democrazia Cristiana e Partito Comunista iniziano la grande sfida politica per la leadership.
Siamo agli albori del connubio tra istituzioni, affari e potere mafioso. Attorno a Palermo, nelle campagne di Montelepre e paesi limitrofi, si fanno duri e sanguinosi gli scontri tra la banda del Boss e le forze di polizia, soprattutto durante gli attacchi alle caserme dei Carabinieri. Alle elezioni per la prima Assemblea Regionale Siciliana datata 20 Aprile 1947 inaspettata è l’ascesa del PCI alleato con il PSI, sostenuto fortemente dai movimenti operai e contadini. Un risultato sorprendente che impensierisce la DC di De Gasperi, Washignton e i vecchi simpatizzanti della Casa Reale. C’è da stroncare sul nascere l’avanzata delle sinistre, convincere a tutti i costi la gente che non è accettabile votare il partito comunista ed infondere paura tra i suoi sostenitori. Il compito viene affidato a Salvatore Giuliano che, 10 giorni dopo la tornata elettorale del ‘47, durante il corteo del 1 Maggio in località Piana degli Albanesi denominata “Portella della Ginestra” (3 km da Palermo) si accanisce con la sua banda contro i duemila manifestanti presenti. Raffiche di mitra dalle alture rocciose che sovrastano la vallata raggiungono quei poveri contadini provocando una strage! Donne, uomini e bambini cadono a terra, con il triste bilancio finale di 11 morti e 27 feriti. Il terrore si diffonde ovunque ed il “Robin Hood” diventa ben presto un mostro e soprattutto braccio armato della politica post-bellica. E’ l’inizio della strategia della tensione e dei nuovi rapporti tra Stato Repubblicano e criminalità organizzata di stampo mafioso. Due anni dopo Portella della Ginestra è il turno di Bellolampo (agosto ’49), ove 7 militari dell’arma dei carabinieri appartenenti al 12° Battaglione mobile di Palermo rimangono uccisi, unitamente ad altri 11 gravemente feriti. Per arginare il grave fenomeno il Ministero dell’Interno costituisce Il “Comando forze repressione banditismo” composto da Guardie di Pubblica Sicurezza e uomini della “benemerita”, guidato dal Colonnello CC Ugo Luca.
Comincia un incessante caccia alla banda ma soprattutto al suo capo, il “Re di Montelepre”. Numerosi gli scontri, gli arresti e le uccisioni inferti ai fedelissimi di Giuliano, fino a giungere alla sua morte, il 5 luglio 1950, a Castelvetrano, in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite. Chi sono stati i mandanti, la mente di Portella della Ginestra e chi, soprattutto, l’artefice dell’omicidio del Padrino? Appena ritrovato il cadavere gli uomini del comando interforze si prendono il merito ma è tutto inutile. Inizia un lungo processo sull’intera vicenda, prima istruito a Palermo poi trasferito nella città di Viterbo (Lazio) nel 1950, per legittima suspicione (legittimo sospetto). Tra gli altri viene arrestato Gaspare Pisciotta, il pezzo da 90 della banda, il luogotenente e cugino di Salvatore Giuliano, che - trasferito nel carcere di Santa Maria in Gradi (VT) - comincia a deporre in aula. Pisciotta, per ciò che concerne la strage di Portella della Ginestra, riconferma quello che già Giuliano aveva lasciato nel suo memoriale, e cioè le accuse contro i governanti dell’epoca, mandanti dell’eccidio. La corte d’Assise ritiene infondate tali accuse rivolte nello specifico a Bernardo Mattarella, Mario Scelba e i monarchici Alliata e Marchesano. Ma il vero colpo di scena di “Gaspare” è la confessione riguardo all’omicidio del suo stesso capo, facendo trapelare all’opinione pubblica che nella sua versione qualcosa di oscuro e scomodo stava lentamente affiorando.
Politici, deputati e Ministri assolti in toto mentre dure invece le condanne ai “picciotti” siciliani, e allo stesso Pisciotta, rinchiuso nelle carceri tra Gradi e l’Ucciardone. Sentitosi profondamente tradito dalle istituzioni, il “vice boss” non ci sta e - di li a poco - comincia a pensare ad una eventuale e concreta resa dei conti; contro tutto e tutti. Il 9 febbraio del 1954 un caffè alla stricnina chiude definitivamente la bocca al luogotenente di Salvatore Giuliano. Lui sapeva che prima o poi sarebbe stato giustiziato, tant’è che a poche ore dalla sua morte disse: “uno di questi giorni mi uccideranno”. Nel 2007, la sorella Rosalia Pisciotta in un’intervista al Corriere della Sera precisò che: “Lo Stato tappò la bocca a mio fratello”.
Riportiamo fedelmente le fasi salienti dell’iter processuale dalle cronache dell’ANSA:
L’ingresso in aula: Viterbo, 9 Aprile 1951 – Il principale protagonista del processo contro la Banda Giuliano, Gaspare Pisciotta, ha fatto il suo ingresso nell’aula della corte d’Assise alle 09:20 precise.
La confessione: Viterbo, 16 Aprile 1951 – “Giuliano è stato ucciso da me” – Caro Avvocato Anselmo Crisafulli – ha scritto Pisciotta al suo difensore – notando in voi un uomo coscienzioso e soprattutto onesto, ripongo in voi tutta la massima fiducia. (…) Avendo io personalmente concordato con il Ministro dell’Interno Scelba, Giuliano è stato ucciso da me. Per tale uccisione mi riprometto di riparlarne nell’aula di Viterbo. Ora prego voi di dare atto del seguente esposto al procuratore generale presso la sezione di accusa di Roma. Vostro devoto Gaspare Pisciotta. La lettura della lettera è avvenuta alle 10:15 di questa mattina.
Le conclusioni: Viterbo 3 Maggio 1952 – Alle ore 08:32 di stamane, la Corte d’assise di Viterbo si è ritirata in Camera di consiglio per decidere la sorte degli imputati della strage di Portella. Il processo iniziato nel 1950, sospeso dopo 15 udienze per la morte di Giuliano, ripreso nel ’51, si è protratto per 200 udienze. (10:23).
La sentenza: Viterbo, 4 Maggio 1952 – Gaspare Pisciotta (e gli altri imputati) sono stati condannati all’ergastolo oggi 3 maggio alle ore 23:45 dalla Corte d’assise di Viterbo.
A quasi 70 anni dalla strage di “Portella della Ginestra” appare chiaro che ancora sono impuniti i veri mandanti di quel tragico massacro, tutt’oggi avvolto nel mistero, così come l’omicidio Giuliano e soprattutto quello di Gaspare Pisciotta, protagonista indiscusso del lungo e famoso processo tenutosi tra Palermo e la cittadina medievale di Viterbo. (Mirko Crocoli)