Ci sono voluti quasi mille Kg di tritolo! Una bomba “atomica” che ha devastato non solo una carreggiata e i valorosi uomini che la transitavano ma moralmente un’intera nazione. Ci voleva un atto dimostrativo così eclatante che lasciasse far intendere la grandezza del personaggio da annientare. Non potevano e non dovevano bastare gli Ak47 Kalasnikova, le P38 o qualche parabellum. Giovanni Falcone era divenuto ormai il nemico numero uno per i capi della “cupola”. La commissione, con i suoi mandamenti, presieduta dai Corleonesi ha deciso per il gesto dimostrativo più forte. Dopo sei anni dal maxi processo e in attesa silente dell’ultimo grado di giudizio, i Boss, scelgono la via della distruzione e della guerra totale contro i migliori eroi dello Stato. Il dado è tratto. Dovranno pagare tutti, in primis gli uomini del Pool, coloro che, con il blitz di San Michele del settembre ’84 e la successiva ordinanza-sentenza denominata “Abbate Giovanni +706” emanata l’8 novembre ’85, avevano dato l’avvio per la prima volta nella storia (Prefetto Mori a parte), alla lotta contro Cosa nostra; l’organizzazione criminale sita nell’isola più bella del mondo. 366 tra mandati di cattura e custodie cautelari, 56 arresti, 707 indagati di cui 475 rinviati a giudizio. Alla sbarra vanno personaggi del calibro di Pippo Calo’ (il cassiere) e Michele Greco detto il “Papa”, grazie all’intuizione straordinaria di Giovanni Falcone che riesce a convincere Tommaso Buscetta detto Don Masino, affiliato al clan di Porta Nuova, e Salvatore “Totuccio” Contorno, uomo di spicco della famiglia di Santa Maria di Gesù’, facente capo a Bontade, a snocciolare tutta la verità sulla mafia.
Un successo strepitoso per il pool guidato dal buon Antonino Caponnetto e diretto dalla coppia Falcone-Borsellino. Operativi sul campo, instancabili lavoratori sommersi di incartamenti, attenti investigatori, due vere punte di diamante della Procura più complicata d’Italia. Comincia, nel febbraio dell’86, il lungo e famoso processo all’interno dell’aula bunker di Palermo, allestita ad hoc per l’occasione. Telecamere ovunque, blindature eccezionali, strati di cemento armato, immense gabbie per gli uomini d’onore. L’evento mediatico è unico, tutti ci guardano, soprattutto oltreoceano, dove FBI e DEA osservano le mirabili gesta della squadra di Caponnetto. Mentre la magistratura fa il suo lavoro, nelle strade e tra la gente, vige un insolito silenzio. L’ordine impartito dai Padrini è categorico; “non si ammazza nessuno perché attenderemo l’esito a noi favorevole del terzo e ultimo grado, la Suprema Corte”
Durante le centinaia di udienze e deposizioni, tra le quali quelle decisive di Buscetta, il percorso giudiziario sembra portare buoni frutti. E’ Don Masino che non si identifica più in quella mattanza che i nuovi capi di Corleone hanno messo in atto da anni. Sono i cosiddetti “Viddani”, i campagnoli, gli “agricoli” che cambiano le regole del grande business di Cosa nostra. Il collaboratore di giustizia spiega dettagliatamente l’ascesa dei “picciotti” del piccolo centro siculo. Prima isolano Don Tano Badalamenti (il boia di Impastato e leader indiscusso di Cinisi) poi, nel biennio tra l’80 e l’82, attivano una serie di agguati illustri, essenziali per l’epurazione ai vertici della “commissione”. Tra i principali esponenti a cadere sotto il piombo dei “soldati” di Don Toto’ Riina c’è Stefano Bontade detto “Il Principe” (boss di Villagrazia), i fratelli Inzerillo (Salvatore e Pietro) e Rosario Riccobono di Partanna. Si ammazzano anche donne e bambini, cosa che prima l’organizzazione non solo non permetteva ma neppure tollerava. A quel gioco al massacro che coinvolge anche gran parte dei suoi parenti, Lui (il pentito eccellente) non ci sta e decide di inchiodarli tutti. La svolta storica si percepisce proprio durante il suo primo ingresso in aula, quando, in un silenzio surreale Buscetta rompe quell’omertà che fino ad allora era stata “sacrale” per il potere mafioso. Il duro scontro verbale del marzo ’86 con Pippo Calo’ rappresenta il segnale definitivo di rottura con i nuovi vertici, avvero con le famiglie Riina, Bagarella e Provenzano. Quasi due anni di dibattimenti fino alla sentenza di primo grado del 16 Dicembre ’87. Dure le prime condanne, in totale 19 ergastoli e 2665 gli anni di reclusione.
Nell’attesa della sentenza di appello, accade quello che nessuno si aspettava. Il 19 gennaio ’88, in un voto notturno che sembrava scontato, il CSM, con 14 voti a 10, assegna il delicato incarico di capo istruttore della Procura ad Antonino Meli. Paolo Borsellino è furioso, nel suo ultimo discorso denominato “i giorni di giuda” lo grida a squarcia gola; “qualche giuda ci ha tradito, ha tradito il mio amico Giovanni”. Mai forse, parole furono più giuste. Aveva ragione Borsellino nel dire che Falcone cominciò a morire lì, in quel contesto, quando gli preferirono l’anziano collega. Era lui il meritevole di quell’incarico, perché era l’artefice dei brillanti successi sul territorio, del maxi processo, delle operazione d’arresto, dei mandati di cattura e del contrasto forte alle cosche. Significativo fu il discorso della Dott.ssa Fernanda Contri, una dei 10 che diede solidarietà e consenso al magistrato:
(…) “Il mio netto orientamento è a favore del dott. Falcone, la cui specializzazione nella lotta contro la mafia è unica, non soltanto in Italia, e tale da far superare ogni perplessità. Oltre alla professionalità, un altro fattore che mi induce a dare il mio voto a Giovanni Falcone è la garanzia di continuità nella direzione dell'ufficio che la scelta del medesimo assicurerebbe: continuità di un lavoro e di un impegno che sono stati seri, corretti ed efficaci. Egli ha dimostrato il massimo di professionalità, di coraggio, di impegno, di vitalità; e di fronte alla dimostrazione di tali doti è auspicabile che almeno una delle amministrazioni dello Stato, quella giudiziaria, dia un concreto segno di voler cominciare a funzionare in Sicilia”.
Deluso ed amareggiato, Falcone, dopo il fallito attentato sulle spiagge dell’Addaura, le continue minacce e il contrasto con il Consiglio Superiore della Magistratura, decide di intraprendere la strada verso la capitale, a fianco dell’ex guardasigilli Claudio Martelli, con l’incarico di Direttore della sezione affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Una poltrona non operativa ma interessante sotto l’aspetto burocratico. Lo è stato per la creazione della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) e della DNA (Direzione Nazionale Antimafia), per la visione e il coordinamento più omogeneo tra le varie procure e le forze dell’ordine e anche ad irrigidire lo stato di permanenza nelle carceri di “mammasantissima”. Era convinto che dal centro nevralgico della nazione, dalla stanza dei bottoni, poteva avere gli strumenti adatti per combattere la criminalità mafiosa, magari rinforzando e unendo il lavoro delle strutture periferiche in un unico ufficio centrale, modificando tramite il Ministro e il governo, alcuni aspetti “chiave” della lotta alle mafie. E’ a Roma che si sposta dunque il pioniere della lotta a Cosa nostra, dopo anni di durissimo lavoro, tra Palermo, New York e l’Asinara (l’Alcatraz italica). E’ Lui il vero apripista al fenomeno del pentitismo, è Lui, l’uomo che sceglie la via del blocco fondi alle cosche ed è (per chi ha poca memoria) soprattutto Lui che capisce quanto la mafia sia vicina alla gente e dentro al sistema. “Ci somiglia…” sosteneva! Questo suo “capirla” la mafia, da palermitano doc, è stata probabilmente la strategia vincente, per colpirla, ferirla, abbatterla. Sicuramente il suo modo convincente e amabile di fare è stata la leva che ha spinto Don Masino, il Boss dei due mondi, ad aprirsi in maniera esclusiva. Falcone non era uno “sceriffo” ma un uomo che sapeva parlare al cuore degli uomini, con un lato umano, anche se di fronte sapeva di avere assassini spietati come spesso sono i collaboratori di giustizia. Ma nel frattempo, la Cassazione assegna il collegio giudicante secondo un criterio di turnover voluto da Giovanni per evitare spiacevoli sorprese, presieduto da Arnaldo Valente. Siamo all’ultimo grado. Gran parte delle condanne riconfermate come precedentemente deciso dalla corte di Alfonso Giordano. E’ il 30 gennaio 1992. Tutti dentro! Ma le belve fuori non accetteranno tale affronto. E’ quella sentenza di condanna definitiva della Cassazione a quasi tutti i principali padrini (sotto accusa già dal 1984) che lo colloca in cima alla lista dei nemici da abbattere. Hanno atteso 7 anni dai primi arresti e 6 dall’inizio del “maxi”, poi l’ordine è arrivato. Sapevano tutto dei suoi spostamenti perché qualche “corvo” ha informato costantemente i suoi carnefici. Ora, giorno, atterraggio, passaggio, luogo e circostanze. Hanno imbottito un’intera carreggiata di tritolo e T4, sapendo che da li sarebbe passato. Vendetta per l’esito finale della Suprema Corte oppure nuove indagini in corso che avrebbero messo in difficoltà non solo i Corleonesi? Gli aspetti oscuri di quel tragico 23 maggio sono molti. In pochi mesi la vendetta è feroce e inaudita. Marzo, maggio, luglio. E’ giunta l’ora dei politicanti compiacenti e dei magistrati troppo zelanti. Per le promesse non mantenute, paga in prima persona, poche settimane dopo, Salvo Lima, il capo DC dell’isola, noto fautore del “sacco” di Palermo con Vito Ciancimino e per i servitori dello Stato è il turno prima di Falcone, il giorno 23 del mese di maggio ed infine dell’amico Paolo, il 19 luglio. Di ritorno da Roma, tra Punta Raisi e il centro di Palermo, all’altezza di Capaci, quasi mille kg di tritolo spengono ogni speranza.
Una ritorsione senza precedenti per il più importante magistrato del mondo che, con alto senso del dovere, aveva donato tutto se stesso per la causa. Mille kg per bloccarlo e per piegare lo Stato, ma che in realtà non sono stati sufficienti a rendere vano il suo immenso lavoro fatto di successi che resteranno per sempre nella storia della lotto contro la malavita organizzata. Oggi, quelle immagine, quei fotogrammi, quel cratere ancora sono stampati nella memoria collettiva e saranno sempre il simbolo per eccellenza del contrasto alle mafie. Hanno ucciso Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i 3 uomini della scorta ma il loro eroismo e soprattutto il loro martirio rimarrà ricordo vivo, da non dimenticare. L’operato straordinario dell’uomo che ha tentato di debellare il peggior cancro del nostro Paese non è certo svanito in quell’esplosione, così come il suo sorriso e soprattutto il ricordo che rimarrà inciso per sempre nei nostri cuori. (Mirko Crocoli)