By Pasquale Hamel - Le vicende risorgimentali hanno contribuito a consolidare quella che potremmo chiamare “la leggenda nera” dei Borbone, la dinastia che regnò sul regno meridionale per circa un secolo e mezzo,
cioè fino a che Giuseppe Garibaldi ed un esercito composito, che si era ingrossato man mano che procedeva vittoriosamente verso Napoli, nel 1860 non ne decretò la fine. Una leggenda che, tuttavia, in gran parte non corrisponde al vero visto che i Borbone, dinastia italianissima, contrariamente a quanto si pensa, non furono peggiori delle tante altre dinastie che, fra luci ed ombre, governarono la penisola fra il secolo XVII e il XVIII. Proprio il loro fondatore, Carlo Borbone Farnese conferma quest’assunto, egli fu infatti rappresentante esemplare di principi illuminati, fortemente intrisi di valori laici, che si impegnarono in opere di modernizzazioni seguendo nel segno tracciato dalla cultura dei Lumi. Quando, infatti, nel 1734, dopo la vittoriosa campagna contro l’impero austriaco, il giovane principe, riconosciuto re anche per volontà del fratellastro Filippo di Spagna, si insediò a Napoli, le sue idee sul governo erano ben chiare, egli sarebbe stato un principe illuminato e non avrebbe ricalcato le orme delle vecchie monarchie dell’Ancient Regime ma, compito arduo, avrebbe seguito i modelli della Lombardia austriaca e del Granducato di Toscana. Carlo, pur giovane al momento dell’ascesa al trono, aveva appena 18 anni, ebbe però l’energia necessaria per rompere con le strutture di potere tradizionali ridimensionando, fra l’altro, il peso politico ed economico della Chiesa che si collocava fra quelli che frenavano in modo evidente i processi di modernizzazioni. La scelta di un ministro di grandi qualità, quale fu il toscano Bernardo Tanucci, gli consentì di dare un colpo decisivo alla concezione feudale dello Stato, spazzando via la congerie di privilegi nobiliari civici e religiosi che avviluppavano in lacci e lacciuoli, l’azione pubblica con grande beneficio della collettività. A lui si deve la cancellazione di molti abusi perpetrati dai feudatari in danno dei contadini che ottennero, peraltro, gli strumenti giuridici per affrancarsi dalla tirannia dei baroni. Agli stessi contadini venne data la facoltà di raccogliere e seminare nei terreni demaniali. Il giovane sovrano abbandonò ben presto le tradizionali politiche economiche che gran parte degli Stati preunitari continuavano a perseguire dimostrandosi un vero e proprio precursore; infatti, piuttosto che puntare sull’incremento del patrimonio personale o pubblico stimolò gli investimenti preoccupandosi di dotare il Regno di quelle infrastrutture necessarie al suo sviluppo. Durante il regno di Carlo, numerose furono, infatti, le opere pubbliche realizzate fra le quali la costruzione di grandi edifici, come la reggia di Caserta o il teatro San Carlo che, ancor oggi, costituiscono vanto della nostra Italia. La sua spiccata sensibilità culturale lo spinse a promuovere gli scavi archeologici che riporteranno alla luce le città di Pompei ed Ercolano. Nell’arco di poco tempo, Carlo portò il Regno meridionale ai primi posti del mondo per dinamismo e trasformazione, per ricchezza e varietà delle arti e della cultura in generale. Napoli in particolare, ma anche le tantissime altre città d’arte del Meridione, divennero naturale meta obbligata di viaggiatori i quali trovarono un Paese in rapido ed armonico progresso. E a proposito di beni culturali, fu proprio Carlo a promuovere la prima legislazione a tutela dei beni culturali nel nostro Paese. Naturalmente questo attivismo, non è stato da tutti apprezzato, qualche storico ha rimproverato al sovrano le ingenti spese che il regno dovette affrontare per raggiungere quegli obiettivi. Quelle critiche non tengono, tuttavia, conto delle conseguenze positive che esse ebbero sull’occupazione, quelle opere consentirono, infatti, di dare lavoro e quindi dignità a masse ingenti di indigenti che, soprattutto a Napoli, vivevano ai margini della vita sociale. Proprio al sociale il sovrano dedicò molti dei suoi sforzi, sua è l’iniziativa di istituire l’Albergo dei Poveri, che doveva ospitare i cittadini economicamente non autosufficienti. La realizzazione dell’opera, alla quale contribuì con proprie risorse il sovrano e la la consorte, la quale vendette i propri gioielli, costò ben un milione dì ducati. Per quanto si oggi possa pensare, l’Albergo dei Poveri rappresentò all’epoca un’opera rivoluzionaria: «un’idea bizzarra», scrive Antonio Ghirelli nella sua Storia di Napoli, «che rispecchia in modo emblematico la paternalistica, ma generosa, preoccupazione di Carlo per la felicità del suo popolo». Ben più positivo fu il giudizio di Giambattista Vico, il grande filosofo secondo il quale Carlo di Borbone incarnava la figura del sovrano ideale in una moderna “monarchia civile”. Il regno di Carlo, così denso di spinte modernizzatrici e di vivacità intellettuale terminò nel 1759 allorché dovette abdicare per assumere la corona di Spagna lasciando il regno formalmente nelle mani del figlio minore ma, di fatto, dello stesso Tanucci che, fino alla maggiore età ddi Ferdinando, ne sarebbe stato il vero padrone. (Pasquale Hamel)