DRAGUNERA: l’uomo che fermò il vento, ma non conquistò la Luna. (racconto di Agostino Spataro) Ioppolo Giancaxio / Realturco, la Pastorale, fine anni '50. Primo episodio Dragunera
1... Qualcuno ancora ricorda quella notte tetra,
quando si scatenò una lotta furibonda fra ombre sataniche che misero a soqquadro gli an¬gusti anditi del piccolo borgo annidato sulla collina dirimpetto al monte Atabirio. Una notte memorabile nella quale irruppe un vento rabbioso, proveniente dal Sahara, che sferzò il paese con folate di pioggia impastata di sabbia rossa. Un ingiusto flagello sopra gente at¬territa e muta. In quella notte senza stelle e senza Dio, si udì soltanto la voce, terrea e potente, di Giosafat , il negromante. “Citalena, citalena, sangu pazzu e focu eternu, alluntanati stu ventu malignu. Fermati dragunera ca staiu arrivannu!” L’urlo cavernoso del vecchio sciamano squarciò la coltre di terrore che avvolgeva i catoi e sfidò il ghibli che, come un cavallo imbizzarrito, aveva galoppato per l’arido vuoto, volato sopra la stretta distesa del mare africano e ora erompeva nella notte oscura dei monti sicani. Era la notte della “dragunera”, un vento sterminatore che terrorizzava i contadini. Un vero disastro che, per fortuna, giungeva assai di rado. Simile a una tempesta profetica, sconquassava ogni cosa: i giardini d’aranci e d’ulivi, i campi di grano e d’orzo, le stalle e gli ovili e le ca¬panne di stoppie per la vasta campagna. Scuoteva anche le misere case di gesso che si tenevano, solidali, una con l’altra. Brandelli di luce, emanata dai lampioni impazziti, anima¬vano le raccapriccianti creature del vento: ombre titaniche di case mi¬nute e mostri volanti con arti pennuti. Come in una lotta mortale di forze terribili, la dragunera sibilava fu¬rente più di prima come volesse annientare l’intero villaggio per zittire, subissare quella voce, carica di disperato coraggio. La voce precedeva l’ombra bislunga di un uomo canuto, incassato in un pesante pastrano dal quale penzolavano due braccia rinsecchite, aperte a forma di croce. Stringeva una “citalena” con la quale tentava di rischiarare i furori del vento. Avanzò a fatica fino al centro della piazza grande e urlò più forte. “Curri, curri cavaddrazzu ca lu chianu è tuttu to’, ora ju t’amminazzu e a la fini ti sdirrupu!” Il ghibli ebbe come un respiro affannoso e poi cessò. Improvvisamente, com’era venuto.
2... Sotto un fascio di luce giallognola apparve il volto estenuato di Giosafat. Stanco e vittorioso. Chi era veramente Giosafat? Non fu mai chiaro chi fosse effettiva¬mente quest’uomo: un impostore o un ingegno balzano, un mago o un seguace del demonio, l’arcano o il nulla… Addirittura, per l’arciprete poteva essere figlio del demonio o Satana in persona il quale, con la scusa della magia, tentava di ammaliare quella massa d’ignoranti contadini. In realtà, Giosafat era un poveraccio, un millemestieri che si esercitava in giochi di magia e in molteplici attività sperimentali. Con risultati assai deludenti, pessimi. Il suo cruccio era quello di vedersi riconosciuto come inventore di quei strani congegni che fabbricava nel sottoscala. La gente lo derideva o lo temeva, mai lo apprezzava. Egli si sentiva un genio con le ali purtroppo tarpate dal pregiudizio po¬polare. Lavorava in solitudine, lontano da occhi indiscreti, dentro una grotta millenaria, sottostante l’abitazione familiare, forse residuo di una tomba sicana. Sarà stata sepolcro di un principe o una più umile dimora? Per la gente era la grotta di “fimmina morta” poiché, molto tempo prima, vi era stato rinvenuto il cadavere, quasi intatto, di una bellissima dama forestiera. Come arrivò o chi la portò in quell’antro? Mistero. Un altro mistero scavato nel sottosuolo di questo borgo apparentemente banale, senza storia, avvolto in un realismo magico o tragico che tende a disperdere la sua esile identità. Il vento si acquietò e portò via quei mostri vaganti. Dalle porte di lindi catoi uscirono uomini atterriti e tentennanti, andarono verso la piazza grande per vedere l’uomo che aveva vinto la dragunera. Giosafat, spogliato del suo manto ombroso, apparve in tutta la sua scheletrica potenza. Ieratico e ancora tonante, ringraziò le arcane potenze per avergli ac¬cordato la vittoria contro quel vento maligno. Raccolse tre pugni di sabbia rossa e si asperse il capo e le vesti e così parlò alla folla invisi-bile e sgomenta:“Non per voi, ma per me, solo per me, è venuta la dra¬gunera …ma anche sta vota, comu vinni s’inn’à jutu…A mani vacanti. Ancora cci nné ogliu a la lampa e forza a la catina. Non è questo il se¬gno del mio destino!” Le parole uscivano a fiotti dalla sua bocca decrepita e bavosa. Nessuno capiva il loro significato ostentatamente esoterico. Come se stesse parlando con un’entità lontana, con qualcuno con il quale aveva un conto da regolare. Secondo lui, la dragunera altro non era che strumento di una perfida congiura ordita, a tradimento, dalla Signora nera per accopparlo in sonno. La sua morte prematura avrebbe spezzato la venerabile Catena. Giosafat si era autoproclamato uno dei cento uomini prescelti per for¬mare la Catena che regge le sorti dell’ignara umanità. A ciascuno di loro era stata affidata una copia del “Rutiliu”, il libro delle Verità fon¬damentali, contenente la summa dei poteri e dei saperi occulti.[1] Il Libro, che nulla aveva a che fare con la vulgata biblica, era stato stampato, secoli prima, in soli cento esemplari e conferito, per le vie dell’arcano, a ciascuno degli eletti, con l'obbligo di trasmetterlo al suc¬cessore predestinato. Un libro segreto che a Giosafat fu affidato da un ufficiale morente sulle montagne del Carso, con la preghiera di recapitarlo a un medico di Roma che non riuscì a trovare, durante la sua breve permanenza nella capitale. Era morto anche lui o il destino volle che il Libro finisse nelle sue mani? E, una volta che lo aveva, se lo tenne. Qualcuno bene informato diceva che fosse un testo di magia nera, riservato agli iniziati predestinati. Il libro conferiva al suo possessore un potere immenso: poteva tra¬sformare le immagini raffigurate in entità viventi e comandarle a suo piacimento. Un eletto che lo volle incontrare gli disse: “Ricordati fratello con questo Li¬bro possiamo fare solo il male, non il bene. Solo il male… Ricordati.”
3... Con il “Rutiliu” in mano, a Giosafat pareva di spogliarsi delle povere vesti quoti¬diane e d’indossare il manto di un potere soprannaturale. Nessuno aveva mai visto quel libro malefico. Nemmeno i suoi di fami¬glia. Era un argomento tabù. Egli stesso ne accennava assai raramente, solo per minacciare qualcuno. Non voleva usarlo perché temeva che una volta attivato il “meccanismo” potesse causare gravi danni ai dub¬biosi, a tutti quei cretini suoi detrattori. Nonostante ciò, taluni continuavano a deriderlo. Giosafat li fulminava con il suo sguardo di fuoco e li aggiungeva nella lista nera. Alcuni, invece, seguivano i suoi racconti, si lasciavano suggestionare dalle sue sicumere, dai suoi terribili scenari. Ci teneva a precisare che il mero possesso del Libro non faceva la po¬tenza del suo possessore. Ogni “anello” della catena doveva essere dotato di un fluido speciale. Nelle mani di un soggetto profano, il Ru¬tilio perdeva “la so putenza, la so forza svanisci. Senza lu fluidu nun si po’ usari”. A detta di Giosafat, il libro conferiva al suo detentore un enorme po¬tere divinatorio e metamorfico.“Tutto quanto c’è stampatu vivu addi¬venta.” [2] Vi erano raffigurate immagini terrificanti: serpenti e draghi orripilanti che avrebbero messo in fuga perfino la “bestia” dell’Apocalisse; arci¬gni guerrieri dotati d' armi distruttive e Satana, in mille forme, che blandisce e tormenta la debole umanità, secondo il suo capriccio. Nel Rutilio era contenuta tutta la forza del Male invisibile che poteva essere liberata, anche in parte, a comando di uno degli eletti possessori. Volendolo Giosafat avrebbe potuto scatenare la furia devastatrice di quelle immagini. Più di una volta, era stato tentato. Lo aveva fin’anco minacciato, pubblicamente, se non altro per dare una lezione al prete che dall’altare lo perseguitava e a quei furfanti increduli del circolo dei “Civili” che lo sfottevano da mattina a sera.
4... Di fronte a tale, oscuro fenomeno la gente si mostrava incerta, spaventata. Paradossalmente, le maledizioni del prete contribuivano ad accreditare la nefasta potenza di quel vecchio invasato e le presunte minacce contenute in quel libro diabolico. In paese, nessuno si azzardava a contrariarlo anche quando annunciava nuove, portentose scoperte della scienza occulta miranti a combattere le terrificanti epidemie che sarebbero state importate dalla Luna, re¬centemente “conquistata”. L’unico che mal sopportava queste spacconate era Turiddru “diun¬terra”, esorcista abusivo operante in tutto il circondario sotto le mentite spoglie d’ingranditore di fotografie di parenti emigrati o defunti. Quel “Diunterra” era un epiteto sarcastico, uno sfottò del popolo, ma zi Turiddru, a forza di sentirselo ripetere, un po’ vi si affezionò, comportandosi come un incaricato dell’Altro che sta nei cieli. Per Diunterra, Giosafat era un ignorantone, un pezzente che fantasti¬cava spinto dai morsi della fame: “Dategli un osso e vedrete che la smetterà di millantare tutta questa confidenza con la sublime arte dell’Occulto. Se mangia smette.” I due si detestavano, reciprocamente. Si tenevano a debita distanza per evitare lo scontro diretto. Giosafat lo ripagava con la stessa moneta, sfidandolo a ogni piè so¬spinto: “Diunterra? Un imbroglione che con la scusa di lu ritrattu ar¬robba li genti… Latru di passu! Lo sfido davanti a tutti: io sono pronto, unni e comu voli. Cu un corpu d’occhi l’abbrusciu stu rinnegatu…Ju sugnu di la Catina e iddru è nenti”. Non si sa se per prudenza o per tacita intesa, i due non arrivarono mai a un confronto diretto. (Questo testo è stato pubblicato, con altro titolo, in “La Repubblica” del 30/8/2002) Secondo episodio
Prova d’ombra, ritorna la teoria geocentrica
1... Come detto, Giosafat era un uomo d’ingegno, uno spirito origi¬nale, inquieto, bizzarro e un tantino supponente. La sua arte sconfinava in vari campi. La sua bottega, pardon il suo “laboratorio”, era luogo prediletto per una molteplicità di mestieri utili ma non indispensabili. Era una sorta di tuttofare. All’occorrenza, riusciva a essere fabbro, cal¬zolaio, stagnaro, falegname, vetraio, elettricista e anche alchimista, mago, astronomo. In tempi di magra, non disdegnava i lavori in campagna, come brac¬ciante e putateri. Non aveva frequentato scuole. Era un autodidatta. Dominava le sue arti con la sapienza acquisita dall’esperienza e con una pazienza davvero certosina. Inconsapevolmente, partiva dal principio leonardesco secondo cui l’inventore, il costruttore devono basare la loro scienza sull’osservazione della realtà dei fenomeni e delle cose semplici; sulla esperienza diretta, personale che consente una più agevole individuazione delle cause generatrici e motrici e quindi le applicazioni scientifiche, gli esperimenti di laboratorio. Da ciascuna di tali arti cercava di astrarne l’essenza cioè la scienza pura. Il “laboratorio” era installato in una grotta, sotto al piano stradale di una piccola via dove le case erano pertugi, umidi tuguri. Amava vivere in solitudine, dentro quella caverna (forse) preistorica. La famiglia abitava al piano rialzato un po’ per conto proprio. Con la moglie, con i figli si vedevano per il pasto, quando c’era. Accanto, (muru cu muru) c’era la linda stanzetta della zia Fifa, religio¬sissima e timorata di Dio, la quale sospettava che il vicino trafficasse con il demonio. Era lei l’informatrice di patricipreti (arciprete). Ogni notte, udiva Giosafat imprecare, urlare frasi sconnesse mentre armeggiava con il martello e con una morsa arrugginita che strideva a ogni mandata. Zia Fifa si domandava: che cosa stringe? Temeva il peggio, specie quando sentiva uscire un odore acre di fumo di “grassolio” (petrolio) dal “gattaloru” in basso della porticina che si¬gillava il tugurio, a chiunque interdetto. Trascorreva gran parte della giornata e della nottata, rinchiuso nel la¬boratorio. Raramente si affacciava nella vicina piazza principale. E quando accadeva era come un’apparizione inquietante o divertente, se¬condo il punto di vista.