*GLI SPIGOLATORI DI MAGGIO
Era la fine del 1946 ed ancora ogni tanto in paese arrivava a piedi uno p più di un prigioniero che rientrava dalla prigionia o dalle valli e le montagne del nord dove aveva combattuto contro i fascisti ed i tedeschi fino alla liberazione.
*Circa un mese prima, verso la fine di settembre era arrivato in paese lo zio di Tonino liberato dai campi di prigionia degli inglesi. Era anche stato fortunato, perché era rimasto sul suolo inglese e non venne inviato in una delle tante colonie e territori dell’impero britannico. Arrivò in uno stato pietoso, a piedi da Caltanissetta e si fermò all’inizio di corso Garibaldi dove abitavano i genitori. Quello che trovò e quello che successe dopo forse lo racconteremo in altra occasione. Qui, invece vogliamo raccontare un episodio della vita di Tonino, che alla fine del 1946 vide arrivare il proprio padre che non ricordava fisicamente come fosse tanto era piccolo quando venne richiamato per la guerra. Dopo la fermata in Corso Garibaldi per salutare i genitori, Michele, così si chiamava il papà di Tonino, attraversò sempre a piedi tutto il paese dirigendosi verso l’Immacolata, il quartiere dove gli avevano spiegato che abitava la sua famiglia. Attraversò corso Garibaldi, il quadrato, la via Duca e si incammino lungo la via G. Lombardo. Fino a trovarsi davanti la chiesa Immacolata Concezione, con le sue mura in pietra viva, il suo campanaro dove svolazzavano ed albergavano un considerevole numero di colombe e colombi. All’inizio di Via Santa Lucia, abitava la sua famiglia in una casa in affitto. Un grande monolocale a piano terra all’angolo a destra entrando, era montato il torchio in rame per fare la pasta. Attrezzo che la mamma aveva messo in funzione e faceva la pasta per il vicinato, che spesso pagava in natura con un poco dell’impasto che portavano da trasformare in spaghetti, magliettine, ditalini ed altri formati che si ottenevano cambiando la piastra d’uscita a seconda del desiderio della cliente. Al centro della parete di destra faceva bella mostra di se lu cantaranu (la cassettiera) ed un poco più in là vi era il letto matrimoniale dove dormivano la mamma e i quattro figli. nella parete di fronte c’era un vecchio guardarrobi (guardaroba) che arrivava all’inizio di un’alcova che occupava il rimanente spazio della parete sinistra e che era ricavata nel sottoscala di una scala in muratura di gesso alla quale si accedeva da una porta che si trovava a sinistra della porta d’ingresso, appena si entrava. Nell’alcova era sistemato il letto del vecchio genitore della mamma di Tonino, che aiutava anche la famiglia con la poca pensione che aveva, mentre la figlia provvedeva a tutto quello di cui aveva bisogno. La scala portava ad un sottotetto abbastanza alto, dove veniva conservata la ristoppia ed altri combustibili che dovevano servire per tutto l’inverno. In cima alla scala, in un lungo pianerottolo, faceva bella mostra di sé lu cufilaru (la cucina in muratura) al servizio della famiglia. Una costruzione, se così si può chiamare, in gesso ricavato su un pianerottolo che si elevava dal suolo del pianerottolo della scala di circa novanta centimetri un metro, sul quale erano murate due spallette in pietre e gesso sulle quali all’altezza di venti centimetri circa, erano fissate, annegate nella muratura tre o quattro pezzi di ferro che servivano a reggere la pendola o la padella mentre sotto i sostegni in ferro veniva bruciato il combustibile, lo spazio rimasto vuoto sotto il piano che sosteneva la cucina, venivano conservati pezzi di legno che venivano usati con parsimonia per cucinare assieme al resto che era ammonticchiato in bell’ordine nel capace sottotetto. Una finestra ricavata nella parte posteriore del sottotetto, si affacciava dietro la casa dove appoggiati al muro i contadini ammonticchiavano lo stallatico ed altri residui che in estate veniva trasportato nei campi per concimarli. Spesso sperimentavamo quel salto dalla finestra, pere poi percorsa la via Castellano rientravamo a casa. Il nonno di Tonino, morì a marzo del 1946 quasi avvertisse di essere in sovrannumero dal momento in cui fosse rientrato il capofamiglia. Giorni dopo, fece la sua comparsa in Piazza Immacolata il papà di Tonino, che con gli occhi cercava la porta dove dirigersi, così come gli era stato spiegato. I tre figli maschi di Michele, così si chiamava il papà di Tonino, razzolavano per strada, giocando con altri bambini che abitavano quella strada mentre la femminuccia, frutto dell’ultima licenza di cui Michele aveva potuto godere, giocava seduta sui mattoni di terracotta di cui era composto il pavimento dell’abitazione, giocando con la sua bambola di stoffa confezionata in casa. I ragazzini si volsero a guardare quella persona che con uno zaino sulle spalle aveva fatto il suo ingresso nella piazza e con passo stanco ma sicuro di dirigeva verso la casa che aveva individuato subito. La prima cosa che si udì e che scosse tutto il vicinato, fu l’urlo della mamma appena vide il marito che si avvicinava ed al quale corse subito incontro. I bambini vedendo la madre correre verso quella persona, le corsero dietro. Avevano capito che il papà di cui la mamma parlava sempre era finalmente tornato. Abbracci, baci, lacrime, fu la scena che si trovarono di fronte i vicini che si erano nel frattempo avvicinati per salutare il nuovo venuto. Superati i primi minuti di saluti e di ben tornato ad opera dei vicini, , finalmente la famigliola poté riunirsi dentro la propria casa, dove continuarono abbracci e baci e dove i bambini si strinsero attorno al padre che nel frattempo si era liberato del fardello che aveva sulle spalle e si era seduto, mentre la bimba, unica figlia femmina, aveva trovato comodo posto sulle ginocchia del padre. La mamma non finiva di darsi da fare, aveva dato dell’acqua da bere al marito, gli aveva preparato la bacinella con acqua pulita per lavarsi e rinfrescarsi alleviando la lunga fatica che gli si leggeva sul volto. Nel frattempo, data l’ora, aveva provveduto a mettere sul fuoco la pendola con l’acqua per la minestra. Poca verdura acquista dal vicino che aveva del terreno dove coltivava oltre al grano ed alle fave, anche un poco di verdure che poi riusciva a vendere o a barattare con i vicini. Bisogna ricordare che all’epoca anche il baratto andava molto di moda. Era baratto lo scambio di merci, come lo era l’esecuzione di lavori in cambio di derrate alimentari o altro. La mamma spesso riusciva ad avere verdure e qualche altra cosa in cambio di lavoro svolto verso la famiglia del donatore. Si trattava di lavori di pulizia o di rattoppo di biancheria, di vesti di pantaloni e di calze di lana fatte a mano che erano quelle che si usavano allora. Questo aiutava la famiglia ad arrotondare quello che sempre la mamma, ma con la collaborazione dei due bambini più grandicelli: Gerlando e Tonino, riusciva a capitalizzare con il torchio al quale ricorrevano i vicini per la loro pasta di casa. Ora sarebbe stato diverso, pensavano sia i bambini che la mamma. Papà era tornato ed avrebbe provveduto al mantenimento della famiglia con il suo lavoro. Michele era un ottimo contadino e di contadini c’era bisogno per lavorare i campi. Aveva anche un periodo di miniera alle spalle, che aveva trascorso presso la miniera Trabonella di Caltanissetta. Un periodo breve, perché abituato all’aria libera, non si adatto alla vita in galleria, per cui dopo pochissimi mesi tornò alla campagna ed all’aria libera. Passati i primi giorni, Michele si rivolse al suo antico datore di lavoro, chiedendogli se per caso avesse del lavoro per lui. Don Filippo, questo il nome del vecchio padrone, gli disse che qualche cosa avrebbe trovato, promessa che mantenne, consentendo così a Michele di fare le prime giornate dopo il suo rientro. Michele si rivolse anche ad altri con i quali aveva abitualmente lavorato prima. Trovò di fare alcuni giorni di lavoro in contrada Banduto ed altri in contrada Chiarelli. Il periodo della semina, richiedeva anche parecchia manodopera nelle campagne, per cui trovò facilmente lavoro nelle campagne presso i cosiddetti “burgisi” che vivevano di rendita agricola. Ma qualche cosa non andava e in Michele cominciavano ad emergere i primi disturbi della grave malattia che aveva preso in prigionia e che era anche causa del lungo periodo passato lontano dalla famiglia in terra d’Africa e in prigionia. E’ probabile che una parte di responsabilità l’avesse un naufragio a causa di siluramento della nave che lo portava verso l’Africa a causare, naufragio del quale si salvò miracolosamente per il sopraggiungere di soccorsi. Può essere che influì molto la lunga distanza lontano dalla famiglia alla quale era molto legato. Si arrivò alla primavera e Michele, era riuscito ad avere un pezzetto di terra in affitto per fare l’orto. In quel pezzo di terra in contrada Pietre Vive e dedicò al quel terreno parecchio del suo tempo. Vi seminò pomodori, meloni, verdure varie, zucchine ed altre piante da orto, utile alla famiglia, ma anche da potere vendere. rese necessario un suo ricovero che poi si sarebbe rivelato L’aggravarsi della malattia, rese necessario il suo ricovero presso una struttura che si trovava ad Agrigento, che poi si sarebbe rivelato molto lungo. Intanto quel ricovero ributtò la famiglia nella disperazione più nera, costretta a vivere alla giornata. All’orto si recavano ogni giorno i due ragazzini più grandi e qualche giorno anche uno zio che provvedeva alla coltivazione, istruendo i bambini su cosa potevano fare. Estirpare le erbacce che crescevano i mezzo alle piante ed alle verdure, rimuovere la terra attorno alle piante in modo da mantenere fresco il terreno. Si arrivò così alla fine di maggio del 47, l’estate arrivava portando il caldo, le fave erano già pronte per la mietitura, mentre i campi di grano cominciavano a prendere il colore biondo della maturazione delle spighe. Gerlando e Tonino giunsero di buon mattino all’orto, muniti della loro immancabile “sacchina”, una capace tasca di olona dove avevano un pezzetto di pane ed altre cose che potevano servire., e la comunicò subito a Gerlando. “che te ne pare se andiamo a spighe visto che sono mature e già abbastanza secche?”. Gerlando espresso perplessità e paura, di norma le spighe si raccoglievano dopo la mietitura, e l’accatastamento dei covoni nei pressi dell’aia, dove tra luglio ed agosto avveniva la “pisatina”. Una operazione che si faceva con l’aiuto delle bestie che correndo in tondo sui covoni pestavano le spighe favorendo la separazione del grano dalla paglia. Nulla andava perduto allora. La paglia veniva conservata per darla da mangiare durante l’inverno alle bestie, il grano veniva conservato nei granai o nei “catusi”, da dove si prelevava periodicamente per portarlo al mulino e farne la farina che serviva per fare il pane e la crusca che serviva per farla mangiare alle galline ma anche alle bestie da soma. La stoppia (ristuccia) serviva da combustibile per la cucina o per il forno, dove si infornava il pane. Le perplessità venne spiegate a Tonino. Il grano non era ancora mietuto e non si poteva certo andare a spighe nei campi con il grano ancora in piedi. “Perché no” rispose Tonino, anzi potremo raccogliere le spighe senza piegarci ed evitando il sale e scendi per raccoglierle da terra. Finalmente Gerlando, anche se di mala voglia e molto dubbioso, aderì all’idea e nel giro di un paio d’ore, i due ragazzini riempirono le capaci tasche di olona di spighe mature, a partirono subito per tornare in paese. L’accoglienza della mamma non fu tra le migliori. I due ragazzi dovettero subire aspri rimproveri della mamma che rimproverava loro di avere rubato, macchiandosi di un peccato contro la religione e contro la legge. Dopo il movimentato rientro, sia i ragazzini che la mamma, non potendo certo tornare indietro le spighe, provvidero, con una mazza di legno, a batterle separando il grano dalla pagliuzza delle spighe. Pulito il grano, i due ragazzi si resero conto di avere raccolto circa quattro chili di grano, che vennero portati al mulino di San Giuseppe e cambiate per farina. I due ragazzini in ogni caso appresero la lezione, non si permisero più di andare a spighe nel mese di maggio, ma vi tornarono con gli zii alle fine di giugno ed a luglio quando sotto un caldo infernale con un fazzoletto legata a sulla testa, raccoglievano le spighe da portare a casa per fare un poco di grano che serviva alla famiglia per tirare avanti. Quel grano nel corso dell’anno, una volta macinato veniva trasformato in pane che la mamma portava in una panettiera che aveva forno in salita Concezione dove la gente del quartiere che non aveva forno in casa, portava il proprio pane a cuocere. L’avventura degli spigolatori di maggio, comunque, rimase nella mente dei due ragazzi, che cresciuti, spesso ne accennavano nelle riunioni di famiglia.
Salvatore Augello 31 dicembre 2021
*le foto sono prese da vikipedia