In un video, il dramma della fuga dalla guerra di uomini e donne alla ricerca di un rifugiatigio sicuro. Così a Serradifalco i professionisti che si occupano dell’accoglienza di un gruppo di rifugiatigiati, hanno inteso ricordare la giornata del rifugiatigiato. Come voce fuori campo, la dottoressa Lidia Alessandra Augello, ideatrice e realizzatrice del cortometraggio montato dall’ing. Marco Algozino,

ha illustrato il video con il seguente commento:

 
 Vorrei raccontarvi una storia…Questa storia parla di 11 persone, costrette a lasciare, molto tempo fa’, le loro case e la loro terra, come migliaia di altri profughi, per cercare un posto in cui sentirsi al sicuro, lontani da guerre e violenza, da minacce di morte e torture. Il loro Paese natale si chiama Afghanistan e Pakistan. Questi ragazzi hanno ognuno una propria identità ben precisa, una propria storia, ciascuno con le proprie esigenze, una famiglia, dei genitori, moglie e figli rimasti ad aspettarli, nella speranza di poterli rivedere presto, mentre altri loro cari, purtroppo, non potranno rivederli mai più. Oggi siamo qui per presentarveli e farvi conoscere parte della loro cultura e delle loro tradizioni. Si chiamano Amanullah, Arshid, Farid, Fazal, Heallguel, Jahanger, Jalil, Mahmud, Riaz, Saber e Satar. Sette sono afghani e 4 vengono dal Pakistan. La loro religione è quella musulmana, da poco hanno iniziato il Ramadan, quasi tutti appartengono all’etnia Pashtun, un popolo che parla una propria lingua, il Pashto, una delle due lingue nazionali in Afghanistan, abbastanza diffusa anche in Pakistan. Questa etnia, inizialmente viveva in un’unica area, fino a quando gli Inglesi, a fine ‘800, hanno stabilito gli attuali confini dell’Afghanistan, di fatto dividendo in due Stati lo stesso popolo. Il loro abito tradizionale si chiama shalwar-kamiz ed è formato da larghi pantaloni e camicia lunga fino al ginocchio, un grande turbante o un berretto di astrakan ed un lungo mantello chiamato chapan. Il loro sport nazionale è il cricket, molto seguito ed apprezzato dagli ospiti presenti in questa struttura, alcuni dei quali lo praticavano prima di venire in Italia. Nella cultura pashtun è molto diffuso il rubab, uno strumento musicale con 18 corde, che stiamo sentendo in sottofondo. I Pashtun amano ascoltare musica ed alcuni di loro ballano una danza chiamata Attan. Consiste in un ballo folkloristico pagano oggi considerato danza nazionale, ballato soprattutto durante le feste di matrimonio o altre celebrazioni. Durante questa danza gli uomini indossano l’abito da cerimonia composto dal pakòl, un berretto di lana, waskàta, un gilet di lana, mentre le donne portano dei vestiti molto colorati arricchiti da piccoli specchi che simboleggiano la luce. Si balla in gruppo a cerchio, sollevando dei fazzoletti rossi al ritmo crescente di tamburi e flauti. Prima di arrivare in Italia, queste 11 persone hanno dovuto affrontare un lungo viaggio per scappare dalla violenza dei Talebani, interamente a piedi, attraversando molte nazioni dall’Asia all’Europa: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria ed infine Italia. Loro sono stati fortunati ad arrivare sani e salvi, purtroppo molti dei loro compagni di viaggio non ce l’hanno fatta, non sono riusciti a superare le notti passate al freddo, la fame e i numerosi pericoli che hanno messo a rischio la loro vita in ogni momento. Durante la prima metà del ‘900 molti italiani sono stati costretti a fuggire all’estero perché perseguitati per motivi politici, oltre che per cercare lavoro. Anche noi italiani, all’inizio, non eravamo ben visti dalle persone del posto a causa della diffidenza e del razzismo. È per questo motivo che possiamo capire cosa provano queste persone e possiamo mettere da parte razzismo e diffidenza per far posto alla solidarietà, alla fratellanza e all’ospitalità che da sempre contraddistingue la nostra Sicilia. Noi possiamo aiutare queste persone ad integrarsi nella nostra comunità, rispettando i loro usi e costumi e facendo rispettare i nostri. Integrazione non vuol dire cancellare o dimenticare le proprie radici per sostituirle con la cultura del Paese ospitante. Integrarsi vuol dire venirsi incontro, arricchire la propria conoscenza, aggiungendo nuove abitudini, una nuova lingua e nuovi amici, pur mantenendo la propria identità culturale, sociale e religiosa. Quando abbiamo a che fare con qualcosa o qualcuno che non conosciamo paura, diffidenza e pregiudizi spesso prendono il sopravvento nella maggior parte di noi. Ma se proviamo a conoscere la persona che abbiamo davanti, informandoci sulla sua cultura e sulla storia del suo popolo, è più probabile che si inizi a stabilire un rapporto di fiducia basato sul rispetto reciproco e sulla tolleranza. In questo periodo storico stiamo vivendo ogni giorno il dramma delle migliaia di profughi che scappano da guerre, fame e violenza con ogni mezzo, pagando cifre altissime accumulate vendendo tutto ciò che hanno. Spesso sono costretti a partire in condizioni disumane, subendo pesanti maltrattamenti, trattati come merce di scambio da altre persone senza scrupoli. Purtroppo molti non riescono a vedere la destinazione finale del viaggio, che si trasforma nelle innumerevoli tragedie raccontate ogni giorno dai telegiornali. A tutti loro, oggi, va il nostro pensiero, perché i loro sogni continuino a vivere in tutte le persone che riescono a salvarsi. Ognuno di noi dovrebbe provare a guardare tutti gli stranieri per quello che realmente sono: prima di essere extracomunitari, musulmani o di colore sono degli esseri umani bisognosi. Tutti quanti meritiamo di essere trattati con rispetto reciproco, in modo civile e dignitoso, per stabilire una pacifica convivenza. (Lidia Alessandra Augello) Il video è stato molto applaudito dai presenti e dal Comune che è il titolare del progetto di accoglienza.