Perché rimarcare il fatto che l’attentatore di Nizza sia sbarcato a Lampedusa rafforza le destre xenofobe e gli estremisti jihadisti stessi Nelle ore successive ai tragici fatti di Nizza, dove un uomo ha ucciso tre persone che si trovavano nella cattedrale della città,

molti canali di informazione si sono affrettati a inserire nei titoli che trattavano la notizia un dato molto specifico: il terrorista, un ventenne tunisino, era sbarcato a Lampedusa il mese scorso. In una situazione del genere, il nesso tra migrazioni e terrorismo sembra essere immediato: i terroristi vengono da fuori, quindi se impedissimo qualsiasi accesso al territorio europeo di stranieri, in particolare musulmani, il problema sarebbe risolto. Ma è importante non lasciare che questa sia la narrazione dominante di un fenomeno complesso come il terrorismo di matrice islamista. Il primo argomento con cui spesso si ribatte a un ragionamento simile è abbastanza noto: i dati statistici ci dicono che la maggior parte degli attentati jihadisti compiuti in Europa negli ultimi anni avviene per mano di cittadini europei. Allo stesso modo, una cospicua maggioranza di arresti legati al jihadismo (70% nel 2019) [1] riguarda cittadini europei. Si tratta di individui nati e cresciuti in Europa, prevalentemente discendenti di famiglie immigrate, di seconda, terza o anche quarta generazione o, meno spesso, di convertiti. Gli stessi autori della strage alla redazione di Charlie Hebdo, del gennaio 2015, erano cittadini francesi, così come il loro complice che ha colpito un’agente di polizia e un supermercato nei giorni successivi, nonché gli esecutori degli attacchi simultanei a Parigi del 13 novembre 2015. Tuttavia, questo dato di fatto non basta a scongiurare ogni dubbio sul legame tra terrorismo islamista e migrazioni. Molti considerano la presenza dell’estremismo jihadista in Europa una ragione sufficiente nel criminalizzare le migrazioni. Se avessimo impedito già da tempo gli ingressi di persone di cultura diversa, dicono, non avremmo i terroristi contemporanei. Ma anche qui bisogna sottolineare un punto fondamentale: la radicalizzazione non è quasi mai direttamente correlata all’appartenenza a famiglie musulmane. È ormai opinione assodata, negli studi del settore, che i sostenitori di ideologie jihadiste si avvicinino a tali ambienti in autonomia, non per l’impartizione di un’educazione religiosa di impronta radicale ed estremista da parte delle famiglie. Al contrario, i giovani radicalizzati rivendicano spesso una rottura dagli insegnamenti tradizionali e dal tipo di religiosità praticata dai genitori [2]. Inoltre, in diversi casi sono i familiari stessi a segnalare i comportamenti estremisti dei figli alle autorità [3]. Per quanto riguarda il contesto migratorio attuale, considerare i canali di immigrazione irregolare come dei veicoli per organizzazioni terroristiche di infiltrarsi in Europa è poco realistico: i rischi per la vita e i costi delle traversate, sia via terra che via mare, sono ostacoli non indifferenti per gruppi che hanno modi molto più efficaci e meno rischiosi per agire in Europa, in primis la propaganda rivolta ai giovani già presenti sul territorio europeo [4]. Ovviamente, ciò non esclude in sé la presenza tra migranti e rifugiati di individui già vicini a ideologie estremiste, come nel caso del terrorista di Nizza, ma chi pensa che la politica delle frontiere chiuse possa far sparire il problema dell’estremismo jihadista in Europa è ingenuo o in malafede. In questo senso, prevenire gli episodi di terrorismo significa potenziare il lavoro di monitoraggio del radicalismo e la cooperazione tra le intelligence europee, significa studiare il modus operandi delle organizzazioni estremiste, la loro permeabilità in determinati contesti (come criminalità organizzata, carceri, periferie urbane), e la loro presa su determinate categorie di persone, per sviluppare politiche di contrasto efficaci. Di certo, non significa chiudere i confini a chiunque voglia spostarsi in un paese europeo per effetto di conflitti, crisi climatiche ed economiche. Più che impedire l’ingresso di potenziali terroristi, la politica dei confini chiusi lede il diritto di migliaia di persone di accedere a forme di protezione internazionale, sancite dalla Convenzione di Ginevra e da altre norme internazionali che gli Stati europei si sono impegnati a rispettare, ma che tentano in diversi modi di aggirare. La narrazione che lega il terrorismo islamista e le migrazioni è pericolosa. Innanzitutto, perché viene sfruttata dalle destre xenofobe, che in questa fase storica mirano ad esacerbare i conflitti sociali, soprattutto a discapito delle minoranze, anziché mitigarli. Questo atteggiamento va in direzione opposta a una vera volontà di affrontare del problema del terrorismo di matrice jihadista. Molti individui che hanno un trascorso di radicalizzazione indicano nella percezione del proprio svantaggio socio-economico e nelle esperienze di razzismo ed esclusione un motore della loro adesione a formazioni e ideologie estremiste [5]. Sebbene queste motivazioni non siano universali e non spieghino da sole la presenza del jihadismo in Europa, sono comunque segnali importanti della correlazione tra conflitto sociale e diffusione delle ideologie estremiste. Marginalizzare ulteriormente le persone con background migratorio e stigmatizzare le comunità musulmane non fa che creare un terreno fertile per le ideologie radicali e i suoi propugnatori. Rafforzare nell’immaginario comune la relazione tra migrazioni e terrorismo avvantaggia anche le organizzazioni estremiste stesse. Per dare di sé un’immagine di forza a fini propagandistici, gruppi come l’ISIS hanno spesso agitato lo spauracchio di massicce infiltrazioni di militanti tra i migranti, informazioni che vengono poi smentite o fortemente ridimensionate dalle intelligence [6]. Inoltre, l’assenza o la scarsità di canali legali di migrazione va molto spesso nell’interesse di queste formazioni, che traggono ingenti profitti da diverse forme di traffico illegale, tra cui anche quello di esseri umani. Fomentare lo scontro ideologico, sostenendo l’incompatibilità tra uno stile di vita islamico ed europeo, non è una prerogativa delle destre xenofobe: è esattamente lo stesso discorso portato avanti dall’estremismo jihadista, che basa la sua stessa esistenza proprio sul conflitto permanente. Insistendo sulla diversità tra “noi” e “loro”, la propaganda jihadista fornisce chiavi di lettura che interpretano le disuguaglianze delle nostre società, ma anche le guerre in Medio Oriente a cui partecipano diversi paesi europei, come la naturale manifestazione dell’odio verso l’islam e i musulmani. Monopolizzando l’immaginario comune con cui i non musulmani percepiscono l’islam, il jihadismo schiaccia la pluralità e tace consapevolmente l’esistenza di milioni di immigrati e cittadini musulmani europei, che non vivono la loro presenza in Europa o la loro identità come una contraddizione tra valori inconciliabili. Per questo è importante, invece, maturare una narrazione diversa, oltre che delle strategie veramente efficaci sia in ambito migratorio che del contrasto al terrorismo. Criminalizzare le migrazioni e colpevolizzare la popolazione musulmana europea per l’esistenza dell’islamismo radicale serve soltanto ad alimentare disuguaglianze e restrizioni alle libertà, a beneficio di chi dall’oppressione e dalla frustrazione di determinati segmenti della società ne trae un tornaconto politico o economico. Anche in momenti difficili, in cui additare le migrazioni e le minoranze come la causa del problema sembra la risposta più ovvia, bisogna invece sviluppare una lettura e una pratica diverse, lungimiranti e consapevoli delle dinamiche più profonde che regolano i rapporti sociali e culturali. (fonte: Redazione community, Laura Morreale)