MIGRANTI DI IERI E DI OGGI ANALOGIE (MOLTE?) E DIFFERENZE (POCHE?) TRA LE MIGRAZIONI DEL PASSATO E LA GRANDE MIGRAZIONE CHE STA AVVENENDO AI NOSTRI GIORNI

di Simone Valtorta - Si parla spesso di immigrati, o meglio di migranti: singoli, gruppi, intere popolazioni che si spostano

da un luogo all’altro della Terra in fuga dalla fame, dalla guerra, dalla disoccupazione, in cerca di una vita migliore. Non è un fatto nuovo: da quando l’uomo ha calcato il piede sul pianeta, si è spostato in cerca di cibo, e soprattutto di acqua, uscendo dalle foreste equatoriali nello smeraldo e nell’oro della savana, e spargendosi poi dall’Africa nel resto del mondo. Inevitabilmente, queste migrazioni portarono a cambiamenti irreversibili nel tessuto sociale di intere regioni: pensiamo alla colonizzazione greca nel Mediterraneo Centrale, che portò alla fondazione di splendide città nell’Italia Meridionale e nella Sicilia e fu il fattore determinante della nascita della civiltà etrusca e poi romana, ma anche alle migrazioni germaniche del V secolo che fecero crollare – pur senza volerlo – l’Impero Romano e schiusero la porta al Medioevo barbarico, o all’emigrazione dei Palestinesi nel Libano degli anni Ottanta del secolo scorso che fece crollare nel caos e nella guerra civile un Paese fino ad allora considerato la «Svizzera del Medio Oriente». Insomma, nel bene e nel male, le migrazioni hanno modellato la storia del pianeta più delle guerre. Anche oggi assistiamo ad una grande migrazione di massa: quella di un miliardo di Africani (qualcuno raddoppia la cifra) verso l’Europa – una fuga dalla guerra, dalla carestia, dalla povertà. Si dice che bisogna accoglierli, perché anche noi, un tempo, fummo immigrati... eppure, a sentir parlare questi «buonisti», si ha l’impressione che non conoscano affatto l’argomento che citano con tanta leggerezza. Chiediamoci, dunque, quali furono non solo le cause ma anche le modalità e le conseguenze della grande migrazione europea del XIX secolo, tante volte citata a sproposito. Ancora all’inizio dell’Ottocento, su 10 bambini che nascevano, solo 3 avevano la fortuna di raggiungere la maturità. Poi, la medicina e l’igiene, soprattutto a partire dal 1850, fecero grandi progressi e – di conseguenza – la mortalità dei bambini diminuì in maniera considerevole: basti pensare alla vaccinazione antivaiolosa e alle tecniche antisettiche introdotte da Lister (sulla base delle scoperte di Pasteur) a partire dal 1875-1880; qualcuno porta in causa anche le variazioni climatiche, come la cosiddetta «piccola glaciazione» che avrebbe limitato la proliferazione dei microbi, e la mescolanza delle popolazioni, che avrebbe irrobustito le difese immunitarie. Una delle conseguenze di questo fu che la popolazione mondiale aumentò in modo esponenziale: dai 680 milioni di abitanti del 1700 si passò ai 954 milioni del 1800, ad 1 miliardo e 241 milioni nel 1850, ai 2 miliardi e 485 milioni un secolo dopo, fino agli oltre 7 miliardi di oggi. Dal 1800 al 1900 la popolazione terrestre aumentò di quasi 700 milioni di persone, dei quali il 24% erano Europei: questo portò, nel XIX secolo, alcuni Paesi soprattutto del Vecchio Continente ad essere sovrappopolati, ossia a dover sostenere una massa di gente superiore al limite concesso dalle loro risorse. Ovvero, in questi Paesi c’erano troppe persone e non tutte trovavano il modo di lavorare e di nutrirsi a sufficienza, soprattutto se consideriamo che a quel tempo le risorse economiche erano ancora scarsamente sviluppate. Il problema presentava un duplice aspetto: mentre alcuni stati erano sovrappopolati e scarsi di risorse economiche, altri Paesi, specialmente nelle due Americhe, erano molto scarsamente popolati e stracarichi di risorse economiche non sfruttate – acque, terre fertilissime, pascoli, foreste, minerali. Considerando tutto questo, ci appaiono evidenti le cause naturali dell’emigrazione, e nello stesso tempo possiamo darne una definizione: è un trasferimento volontario di masse di popolazione da Paesi sovrappopolati e con risorse limitate a Paesi di scarsa popolazione e forniti di grandi risorse economiche da sfruttare. Fu nei primissimi anni dell’Ottocento che, a causa di crisi agricole ed industriali, cominciarono a partire dall’Inghilterra e dall’Irlanda grandi masse di operai, di artigiani, di contadini desiderosi di migliorare le proprie condizioni di vita. Negli anni successivi l’emigrazione andò via via aumentando: per cause diverse (cattivi raccolti, disoccupazione, disordini, carestie) 70 milioni di Irlandesi, Tedeschi, Francesi, Spagnoli, Italiani, Olandesi, Austro-Ungarici, Polacchi, Russi, Svedesi lasciarono l’Europa (50 milioni a titolo definitivo). Oltre la metà di essi si trasferì negli Stati Uniti; il resto si distribuì fra Canada, America Meridionale, Australia ed Africa (ma anche, incredibilmente, persino in Siberia); dal 1830 in avanti ci fu una fortissima emigrazione di Francesi verso l’Algeria e la Tunisia (anche se la Francia, che aveva adottato molto presto un sistema di limitazione della nascite, era appena in grado di rimpiazzare le proprie generazioni e riuscì ad aumentare la popolazione solo grazie al prolungamento della durata media della vita). Questi emigranti si moltiplicarono nelle nuove terre, cosicché la popolazione di origine europea, stimata di 210 milioni all’inizio del XIX secolo, toccò verso il 1900 i 560 milioni: più di un terzo dell’intera popolazione del pianeta! Il fenomeno dell’emigrazione avvenne soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, il periodo in cui l’Europa andava industrializzandosi: per gli operai, in particolare per quelli specializzati, non era difficile trovare lavoro, e per questo coloro che emigrarono furono soprattutto contadini, manovali, minatori. Essi si dedicarono per lo più alla colonizzazione degli immensi territori incolti delle due Americhe, dell’Australia, ed allo sfruttamento minerario: fu per opera loro che vennero disboscati migliaia di chilometri di foreste vergini nel Canada, nel Brasile, nell’Argentina, per ottenere terreno coltivabile; immense zone di territorio furono ricoperte di campi arati; apparvero, soprattutto per opera di Italiani e di Spagnoli, i frutteti, gli agrumeti e i vigneti della California; nel Brasile furono create piantagioni di gomma, di canna da zucchero, di caffè; villaggi e città sorsero dal nulla, dove prima non c’erano che il deserto o la foresta o le paludi. La «terra promessa» degli emigranti erano gli Stati Uniti, che verso la metà dell’Ottocento vivevano un periodo di grande espansione: erano un Paese vastissimo e quasi spopolato, dove c’era ancora tanto da fare e da costruire, e numerose possibilità d’impiego. Nel 1850 furono scoperte nell’Arizona, nella California, nel Colorado le prime miniere d’oro; nel 1862 il Governo degli Stati Uniti emanò leggi molto favorevoli per chi intendesse colonizzare le terre occidentali, e questi due fatti attrassero uomini da tutto il mondo, persino dal Giappone. In totale, dal 1810 al 1930 giunsero negli Stati Uniti quasi 38 milioni di migranti; ma, giova ricordarlo, gli Stati Uniti stabilirono un numero massimo di persone da accogliere annualmente nel loro Paese che non è mai stato oggetto di modifiche! Gli emigranti che mettevano piede sulle coste americane non arrivavano certo in un Paradiso: appena sbarcati a New York, dopo una traversata per mare durata mesi che costava la vita ad oltre il 20% dei viaggiatori (qualcuno sostiene all’80%), i migranti venivano rinchiusi in quarantena, per controllare che non avessero malattie. Passati 40 giorni, venivano fatti uscire e, da allora, avrebbero dovuto cavarsela da soli: altro che centri di accoglienza, consolati, ambasciate, associazioni caritatevoli e quant’altro abbiamo oggi – o imparavano la lingua del luogo e s’ingegnavano per tirare avanti con le proprie forze, o potevano anche crepare. Molti, però, non creparono affatto, ma anzi fecero fortuna: come l’Italiano Amadeo Peter Giannini, che – tra le tante cose che fece – nella San Francisco semidistrutta dal terremoto del 1906 iniziò la ricostruzione facendo credito a tutti con i due milioni di dollari della Bank of Italy (dal 1927 Bank of America, oggi la più potente banca del mondo) e che gettò le basi di Silicon Valley, simbolo universale dell’innovazione, dove tutt’oggi gli Italiani sono stimatissimi per le loro grandi doti di fantasia e la capacità di trovare soluzioni ai problemi sempre nuove e alternative. In Algeria, Tunisia, Marocco, Libia, per opera di Francesi, Italiani, Spagnoli, furono costruiti strade, impianti di irrigazione, piantagioni, villaggi. Nel 1850 si scoprirono in Australia miniere d’oro e questo provocò l’afflusso nel continente di oltre un milione di Inglesi, Irlandesi, Tedeschi, Francesi, Italiani, ed anche immigrati di colore (per esempio, Cinesi) che modificarono in profondità la struttura sociale del Paese. Lo stesso, più tardi, avvenne nel Transvaal: nel 1880 la scoperta di ricchissimi giacimenti auriferi fece accorrere in quella regione del Sud Africa migliaia di Europei, specialmente Inglesi, Olandesi e Tedeschi, che naturalmente impressero una svolta alla vita del Paese, fin allora dedito solo alla pastorizia ed all’allevamento del bestiame. Nel 1875, quando vi giunsero le prime migliaia di Italiani, l’Argentina era un Paese povero e con una scarsa popolazione, composta per lo più da miserrimi contadini, l’agricoltura era rudimentale, i campi mal coltivati davano raccolti scarsissimi, e gli animali selvaggi avevano agio di scorrazzare per le campagne; 85 anni dopo, nel 1960, la popolazione della Repubblica aveva superato i 21 milioni di abitanti, l’agricoltura era progredita in maniera enorme, l’attrezzatura industriale e l’allevamento del bestiame erano divenuti fiorentissimi ed organizzati in maniera perfetta. Questo enorme progresso era dovuto agli emigranti italiani, e la stessa situazione si ripeteva nel Brasile, nell’Uruguay, nella Repubblica del Panama (lo stesso grandioso Canale di Panama fu compiuto per la maggior parte da maestranze italiane) ed altrove. L’emigrazione italiana cominciò ad essere sensibile verso il 1860: il territorio dell’Italia appena unificata non aveva sufficienti risorse per poter contenere e sfamare la sua popolazione, che ammontava a 25 milioni di persone; per questo, specialmente dopo il 1880, una media di 150.000 Italiani cominciò a lasciare la Penisola per trasferirsi in altri Paesi Europei ed anche oltre Atlantico. Questa media andò continuamente aumentando: divenne di 500.000 nei primi anni del secolo scorso e raggiunse la sua punta massima nel 1913, in cui emigrarono 873.000 persone, da un Paese che ne contava più di 35 milioni! In totale, varcarono l’Atlantico 8 milioni di Italiani (ugualmente ripartiti tra Stati Uniti ed America Latina), mentre altri 8 milioni si sparsero per l’Europa. Viene da chiedersi se l’emigrazione fu un bene o un male. Per i Paesi che ricevettero gli immigrati, essa fu un bene: la mole e la qualità di lavoro che gli Italiani, e non solo loro, compirono ovunque, dall’Amazzonia alla Terra del Fuoco, dal deserto africano a quello australiano, furono enormi. Per l’Italia, così come per gli altri Paesi che inviarono migranti all’estero, l’emigrazione fu insieme un bene e un male. Fu un bene perché assorbì un’eccedenza di popolazione che altrimenti sarebbe stata condannata a rimanere senza lavoro, diradò la popolazione delle zone depresse portando all’aumento dei salari, al miglioramento dei patti agrari, alla ristrutturazione della proprietà; inoltre gli emigranti che lavoravano all’estero inviavano in Italia enormi somme di valuta straniera, cosa vantaggiosa per l’economia dell’intera Nazione (nel 1907, per esempio, le rimesse dei soli emigrati transoceanici raggiunsero la cifra di 365 milioni di lire dell’epoca, una somma quasi pari alla metà del deficit della bilancia commerciale). Inoltre, gli emigranti che, dopo un periodo più o meno lungo, rientravano in Italia, «vanno via bruti e tornano uomini civili» (come disse un dirigente d’associazioni contadine del Sud): avevano acquisito disinvoltura, scioltezza di modi e di parola, indipendenza di carattere, senso maggiore della propria dignità e dei propri diritti, poca o nessuna soggezione dinanzi agli antichi padroni. Avevano imparato a cavarsela da soli! Ma fu anche un male, perché sottrasse al Paese d’origine validissime braccia ed intelligenze: nel periodo di massima intensità, cioè fra il 1891 e il 1911, emigrarono definitivamente soprattutto i maschi fra i 10 e i 30 anni, principalmente dai ceti rurali (contadini, braccianti, edili) dell’Italia Centro-Meridionale. Oggi gli studiosi, in complesso, pensano che l’emigrazione, se effettuata con le dovute garanzie, non sia un male: sulla Terra vi sono ancora milioni di chilometri quadrati assolutamente incolti, che potrebbero rendere quantità inimmaginabili di prodotti agricoli e minerari. L’emigrazione sarebbe uno dei sistemi migliori per rendere produttive queste terre e, di conseguenza, per elevare il livello di vita di milioni e milioni di uomini. Però anche questa ha delle regole: accogliere tutti, indistintamente, non ha senso, non abbiamo le risorse necessarie per farlo. Soprattutto se si pensa che molti migranti di oggi (non tutti, per fortuna: pensiamo agli Argentini venuti in Italia una ventina di anni fa, ed accolti tutti, indistintamente, a braccia aperte) arrivano con un grande carico di odio, non solo di speranze, e non hanno neppure l’umiltà di chiedere: pretendono, e se non ottengono ciò che vogliono, usano la forza per prenderselo; non hanno nessun desiderio di integrarsi in una società che sentono estranea (come mostra il fatto degli attentatori in Francia ed Inghilterra, in massima parte nati in quei due Paesi... e poi si parla di «ius soli» come di un diritto da esigere senza «contropartita»). Vorrei concludere con le parole di un grande pensatore, Platone, una delle menti più brillanti dell’umanità; nonostante siano passati oltre 2.000 anni, i suoi moniti appaiono quanto mai attuali, un avvertimento all’Italia ed all’intera Europa, quasi una nefasta «profezia» che chi sa guardarsi attorno scopre sempre più sul punto di avverarsi: «Quando il cittadino accetta che chiunque gli capiti in casa possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e c’è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine, così muore la democrazia: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo» (Platone, Repubblica, libro VIII). (da Storico.org - Simone Valtorta)