STORIA DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA

Da “La Gente d’Italia” -  Uruguay, del 1 aprile 2021 Dal 1869 al 1935 i nuovi arrivati vengono spediti ‘in quarantena’ sull’Isla de Flores

MONTEVIDEO – A partire dalla Guerra Grande,

la tendenza migratoria in generale cominciò a cambiare. Italiani e Spagnoli si stabilirono al primo posto in termine di numero di immigrati. I principali porti di partenza dei nostri emigrati erano Genova, Savona, Livorno, Palermo e Napoli. I viaggi in piroscafo duravano un mese, mentre i viaggi in veliero duravano una cinquantina di giorni. La popolazione straniera di Montevideo nel 1850 era la metà del totale, 10.000 erano italiani nati in Italia. Alcuni gruppi etnici particolari come i valdesi arrivarono nella regione Florida nel 1856, da dove si trasferirono poi a Colonia attorno al 1858. Fu proprio a Colonia che fondarono la Colonia Piamontesa e successivamente la Colonia Valdense dove si fanno ancora formaggi deliziosi. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1865 fu riattivato l’arrivo degli italiani, facilitato dalle leggi stabilite nel 1853 e nel 1858 che favorivano l’immigrazione in Uruguay. Molti immigrati erano il prodotto di movimenti migratori che si erano verificati in Europa in precedenza, come nel caso dei nati a Gibilterra, figli o nipoti di Liguri. Siamo attorno al 1860 quando il numero degli immigrati cominciò ad aumentare. Un momento particolare durante il quale crescono, soprattutto Liguri, Lombardi e Piemontesi Fu più avanti che si registrò anche l’arrivo di meridionali, provenienti dalla Basilicata e dalla Campania. Durante questo periodo il numero di italiani aumentò di anno in anno senza pausa. Nel 1868 si registrò l’arrivo di 8.039 italiani, per lo più napoletani e genovesi. Per via di una delicatissima situazione economica che attraversava l’Italia e del gran numero di emigranti, diversi agenti si sono dedicati a spedirli in America a proprio vantaggio, addebitando commissioni per ciascuno degli emigranti trasportati. Ci furono massicci arruolamenti che furono paragonati alla tratta degli schiavi dallo storico Juan Oddone. Secondo Oddone, “Migliaia di italiani erano trasportati come emarginati, fuggitivi, politici, disertori o riluttanti al servizio militare, malati e difettosi, non ammessi attraverso le rotte regolari ; bambini esportati e venduti come merce, debitori in bancarotta, prostitute“. Dall’altra parte dell’oceano, in Italia furono venduti passaggi per battelli a vapore che poi si rivelarono velieri che, come abbiamo detto, impiegavano quasi 2 mesi ad arrivare a Buenos Aires o Montevideo. In certi casi i biglietti venduti agli emigranti per il Río de la Plata riguardavano solo il trasferimento a Marsiglia, dove venivano abbandonati e non era insolito che gli emigranti diretti a Montevideo finissero per sbarcare, per esempio a New York o a San Paolo del Brasile Solo a Genova, tra il 1860 e il 1870, funzionavano circa centotrenta compagnie di navigazione dedicate al trasporto di immigrati al Río de la Plata. Per esempio, lo scrittore e politico Cristoforo Negri arrivò addirittura ad affermare: “Il Rio de la Plata è la nostra Australia”. Per proteggere la popolazione locale da contagi di malattie che gli immigrati potevano portare, dal 1869 al 1935, i nuovi arrivati dovevano rimanere in quarantena sulla famosa Isla de Flores, qualcosa come l’Ellis Island di New York. La Isla de Flores è un’isolotto a venti chilometri al largo di Montevideo. Aveva un lazzaretto dove venivano curati i malati, un albergo per immigrati, un cimitero e un crematorio; ogni immigrato poteva rimanervi fino a quaranta giorni Nella seconda metà del XIX secolo, l’Uruguay ha visto la più alta percentuale di crescita della popolazione del continente: la popolazione si moltiplicò quasi per sette tra il 1850 e il 1900, grazie all’immigrazione, soprattutto italiana. Lo storico argentino Fernando Devoto definì il terzo quarto del l’Ottocento come “l’età d’oro dell’emigrazione italiana in Uruguay” (Stefano Casini – La Gente d’Italia /Inform)

Quando nel 1843 durante l’assedio di Montevideo si formó il gruppo teatrale ‘Aficionado Italianos’…

La storia culturale risale al 1843, durante l'assedio di Montevideo, quando si formò il gruppo teatrale "Aficionado Italianos" attivo fino al 1848. Rappresentava opere come Saul di Vittorio Alfieri in italiano, Piú tardi, nel 1880, altri gruppi teatrali come "The Italian Drama Club", "Aspirazioni Drammatiche" e "Italian Drama Company" rappresentarono versioni italiane di Otello e Amleto. Fu tale la proliferazione di compagnie teatrali italiane in quell’epoca, che molte opere di drammaturghi uruguaiani furono tradotte per essere presentate in anteprima in italiano. Come esempio, Samuel Blixen ha presentato per la prima volta in italiano un’opera del più importante drammaturgo uruguaiano come Florencio Sánchez. Lo scrittore uruguaiano Juan Carlos Sabat Pebet ha spiegato: “Data la loro bassa scolarità, i primi immigrati arrivati nella seconda metà dell'Ottocento erano soliti parlare la lingua o il dialetto della loro regione di origine e un prodotto lingua franca della mescolanza di più dialetti” Quando la capitale Montevideo era sotto assedio e molto prima dell’Unità d’Italia, nacque l'idea dell'unità italiana e l'uso di una lingua comune cominciò ad essere promossa nel territorio uruguaiano. É anche vero che l'integrazione dei nostri connazionale nella vita sociale uruguaiana fu piú facile che, per esempio nei paesi sassoni, per la vicinanza della lingua spagnola. Una volta insediato, la conservazione dell'italiano nel tempo dipendeva da diversi fattori come l'età, la composizione familiare, il livello culturale, il tipo di lavoro svolto, i legami con la madrepatria o le tradizioni. Dopo l'indipendenza, lo stato uruguaiano pianificò un paese moderno per l’epoca, omogeneo e con politiche di alfabetizzazione molto profonde che non scoraggiavano il multilinguismo. Studi condotti dall'Università della Repubblica dell'Uruguay hanno mostrato che gli italiani usavano la propria lingua madre, soprattutto i dialetti e l’uso dello spagnolo influenzava una miscela cha anche prese un nome: “el cocoliche”. La generazione successiva, nata in Uruguay, imparava l'italiano in famiglia ma questo non ha interferito con l'uso dello spagnolo e la terza generazione, purtroppo, ha perso la lingua o il dialetto dei propri antenati e ha parlato uno spagnolo come la popolazione locale. Queste indagini hanno anche suggerito che la lingua italiana si stava perdendo più rapidamente in Uruguay che in altri luoghi, come New York, perché gli italiani in Uruguay si assimilavano più facilmente ad una cultura costruita, in buona parte, anche da loro stessi. Per il linguista uruguaiano Adolfo Elizaincín era normale per i figli degli italiani abbandonare la lingua dei genitori. Questo fenomeno potrebbe essere dovuto al fatto di una mancanza di un forte numero di scuole italiane o matrimoni formati tra italiani e membri al di fuori di quella comunità. Le prime generazioni nate in Uruguay potrebbero rifiutare la lingua dei genitori nel tentativo di salire socialmente, che era legato a un buon uso della lingua spagnola. Lo scrittore italiano Vincenzo Lo Cascio ha scritto su questo fenomeno: “Come risultato della mescolanza linguistica tra dialetti italiano e spagnolo, nacque il cocoliche, uno slang parlato nei conventillos da immigrati italiani del Río de la Plata tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.” Il termine "cocoliche" deriva dal romanzo Juan Moreira dello scrittore argentino Eduardo Gutiérrez, che fu teatralizzato nel 1886 dal figlio uruguaiano di un napoletano di nome José Podestá.