SENZA DOCUMENTI MA SOVRAQUALIFICATE. IL PREGIUDIZIO EUROPEO ESCLUDE LE PERSONE MIGRANTI

FacebookTwitter Pinterest 17 agosto 2023 - Oiza Q. Obasuyi - Uno degli stereotipi maggiormente diffusi riguarda il binomio “irregolare-non qualificato” che viene attribuito alle lavoratrici e ai lavoratori migranti privi di documenti. In un nuovo studio pubblicato da ricercatori e ricercatrici della Vrije Universiteit di Bruxelles,

viene spiegato che tale binomio, oltre a essere falso, è però conseguenza della mancanza di percorsi di regolarizzazione. Ce ne parla Oiza Q. Obasuyi. Quando si parla di forza lavoro e immigrazione in Europa, lo si fa in relazione alle necessità di uno Stato di coprire determinati settori lavorativi e questi ultimi sono, il più delle volte, caratterizzati da lunghe ore di lavoro, paghe inesistenti o minime e sfruttamento. È in questo contesto che viene inserito un gran numero di lavoratori e lavoratrici migranti – spesso senza documenti -, specie se provenienti da Paesi Extra-Ue. I ricercatori e le ricercatrici Damini Purkayastha, Tuba Bircan, Ahmad Wali Ahmad Yar e Duha Ceylan nello studio Irregular migration is skilled migration: reimagining skill in EU’s migration policies, analizzando le esperienze di 34 persone migranti – provenienti da: Afghanistan, Ghana, Guinea, India, Palestina, Siria, Tibet, Togo e Turchia, 25 uomini e 9 donne – arrivate in Belgio attraverso rotte irregolari, esaminano le modalità di esclusione e di pregiudizio che le colpiscono. Come viene riportato nello studio, c’è un persistente binomio “minaccia-vittima” in ogni discussione che riguarda le persone migranti “irregolari” e tale schema non lascia spazio all’emersione delle capacità e delle aspirazioni di queste ultime, come se avessero poco o nulla da offrire al Paese ospitante. “Si stima che la maggior parte delle persone migranti irregolari lavori in Europa per mantenersi e spesso in forme precarie di lavoro irregolare […]. Durante la pandemia di Covid-19, è emerso come i lavoratori e le lavoratrici migranti [perlopiù senza documenti] costituiscano una quota significativa di coloro che lavorano in Ue, sopratutto nei settori come le industrie di confezionamento della carne, l’agricoltura, l’edilizia, il lavoro domestico e la logistica”, si legge nello studio. Inoltre, nello stesso è stato evidenziato un doppio standard discriminatorio adottato dall’Ue nel trattamento delle persone rifugiate ucraine rispetto a quelle provenienti da altre parti del mondo, in relazione alla questione “qualità e competenze lavorative”. Infatti, si legge nella ricerca, “le comunicazioni ufficiali dell’Ue […] sottolineavano come le persone rifugiate ucraine costituissero un potenziale nel mercato del lavoro [incentivando la rapidità nei controlli delle competenze per un miglior inserimento], e quindi un importante vantaggio per la comunità ospitante”. Diverso è invece il discorso per le persone rifugiate provenienti dai Paesi del continente africano o del Medio Oriente. “Questo paradigma “noi e loro” alimenta una tendenza già prevalente ad associare le persone rifugiate del “Sud globale” con povertà, conflitti, disordine e minaccia in contrasto con “l’espatriato bianco” che si presume aggiunga valore alle società ospitanti”. In questo caso, come sottolinea la ricerca, il punto non è screditare l’importante provvedimento della Protezione Temporanea (2001/55/CE) adottato nei confronti delle persone rifugiate ucraine allo scoppio della guerra d’aggressione della Russia, ma “si cerca di capire perché e come le migrazioni […] provenienti da una specifica parte del mondo siano sistematicamente inquadrate nei concetti di competenze, abilità e valore, mentre altre siano invece definite come poco qualificate e di minor valore”. Facendo questa distinzione, si legge nello studio, si arriva alla creazione di una dicotomia tra persone rifugiate qualificate meritevoli e persone rifugiate “non qualificate” provenienti dal Sud del mondo, ponendo le basi per un discorso sociale ostile. Nella ricerca, invece, viene spiegato ad esempio che quando le persone intervistate avevano lasciato i loro Paesi d’origine avevano almeno un diploma di scuola superiore, diversi avevano una laurea e alcuni anni di esperienza lavorativa. Anche i minori frequentavano la scuola prima di dover partire. Alcune persone intervistate “hanno lasciato i loro Paesi d’origine intorno al 2013-2015, tra la crescente persecuzione religiosa e l’escalation della violenza in Medio Oriente. Poiché le risorse erano diventate scarse […], la vita quotidiana era diventata difficile. Nonostante le circostanze, alcune città si sono impegnate a mantenere le scuole in funzione e persino a far sostenere gli esami quando possibile. Un intervistato ha affermato che la sua famiglia sperava di andare in Europa e credeva che il suo diploma di scuola superiore sarebbe stato riconosciuto lì”, si legge nella ricerca. Inoltre: “le esperienze personali dei nostri intervistati smentiscono l’ipotesi di una mancanza di istruzione e aspirazione professionale tra le persone migranti prive di documenti […]”. Come viene ulteriormente spiegato nello studio, il problema non risiede nella mancanza di competenze o studi pregressi, ma il fatto che non tutte le lauree o i diplomi di scuola secondaria extra europei vengono automaticamente riconosciuti, infatti: “quello che abbiamo notato durante le nostre interviste è la discrepanza tra il potenziale che i nostri intervistati vedono in loro stessi e come si sentivano visti dalle autorità e dai potenziali datori di lavoro”. J.I., un ingegnere di formazione, si è recato in Europa con alcune persone, anche loro con la medesima formazione. “Ricorda che hanno lasciato il Belgio perché ritenevano che le loro qualifiche fossero invisibili alle autorità. Hanno detto che durante le interviste nessuno ha nemmeno chiesto loro cosa potevano o volevano fare”. Una simile sorte è toccata anche ad alcuni rifugiati, che a differenza delle persone prive di documenti, hanno uno status legale riconosciuto: “un intervistato di 39 anni che parlava più lingue e aveva 11 anni di esperienza come avvocato afferma di non aver ricevuto alcun aiuto dall’agenzia [per l’impiego]: “continuavo a chiedere loro cosa potevo fare, non ho ricevuto risposta da loro”, si legge nella ricerca. M.D, un intervistato che ha vissuto per alcuni anni in un campo profughi con la sua famiglia in Turchia, ricorda che non potevano frequentare le scuole locali poiché a nessuno era permesso lasciare il campo. Tuttavia, sua madre e molti altri si sono mobilitati per aprire le scuole sul sito: “volevamo imparare, volevamo aprire scuole nei campi. Non volevamo che le nostre vite si fermassero. Mia madre e alcuni insegnanti hanno aperto lì la prima scuola per persone rifugiate. Ci hanno permesso di imparare il turco e ci hanno detto che se avessimo potuto imparare il turco avrebbero potuto permetterci di andare all’università”, si legge nella ricerca. Tra le donne intervistate, emergono esperienze molteplici. Alcune avevano alti livelli di istruzione ed esperienza lavorativa nel Paese di origine: “le intervistate hanno parlato di come la loro posizione legale, la mancanza di riconoscimento e gli stereotipi sulle donne abbiano influenzato [negativamente] i loro incontri con i belgi locali”. E ancora: ciò che i nostri risultati rivelano è che la questione delle competenze tra le persone migranti e l’integrazione nel mercato del lavoro riguarda anche i sistemi che queste ultime incontrano. “In particolare”, si legge nella ricerca, emerge “il costrutto epistemico di skill (abilità) progettato per escludere o rendere invisibile la competenza acquisita nel Sud del mondo e i discorsi di genere che allontanano ulteriormente le donne dalla partecipazione [nel mondo del lavoro] in molteplici modi”. Per le persone migranti riconosciute come rifugiate, le interazioni per l’inserimento nel mercato del lavoro possono essere caratterizzate da pregiudizi razzializzanti in cui le loro capacità vengono messe da parte e viene detto loro di “riqualificarsi”, acquisire ulteriori diplomi, iniziare stage o lavori di livello base (anche se possiedono competenze che superano tale livello). Per le persone migranti in condizioni di irregolarità, la situazione peggiora ulteriormente poiché sono costrette a prendere tutto ciò che possono ottenere, a prescindere da ciò che possono realmente fare. “Le abilità” si legge nella ricerca “esistono, ma possono essere sistematicamente rifiutate”. A una simile conclusione era già giunta anche l’Undp (Dipartimento Sviluppo delle Nazioni Unite) che nel rapporto Scaling Fences. Voices of Irregular African Migrants to Europe, del 2019, aveva già evidenziato come la maggior parte delle donne e degli uomini migranti che arriva in Europa dai Paesi del continente africano, ad esempio, non solo è maggiormente sottoposta ad alti livelli di disoccupazione e precarietà, ma è anche sovraqualificata rispetto ai lavori che poi è costretta a svolgere. Sempre secondo il rapporto, negli anni c’è stata una drastica chiusura delle vie legali per entrare in Europa, costringendo le persone a compiere viaggi pericolosi. Tutte le persone intervistate sono consapevoli del fatto che l’istruzione e l’acquisizione di nuove competenze sono la chiave per potenziare se stesse, durante il viaggio e una volta in Europa. In conclusione, non solo occorre andare oltre le categorizzazioni semplicistiche che attualmente riguardano le politiche migratorie, ma, come viene evidenziato nella ricerca “è fondamentale riconoscere che le persone migranti sono esseri umani con aspirazioni e diritti”. L’Unione Europea dovrebbe quindi porre fine non solo alla classificazione di persone migranti di serie A di serie B, ma garantire a tutti e tutte l’accesso ai percorsi di studio e di lavoro in base alle esperienze pregresse, senza pregiudizi di alcun tipo.

Questo studio è stato prodotto all’interno di Humming Bird. Humming Bird è un progetto Horizon 2020 che mira a migliorare la mappatura e la comprensione dei flussi migratori in evoluzione.

Foto copertina via Twitter/Melting Pot Europa