Chi decide di dichiarare guerra al “nemico”, nel nostro caso la Russia, dovrebbe prima ascoltarlo, per capire meglio chi è e dunque imbracciare l’arma giusta per combatterlo. Anche chi sostiene le ragioni di Putin, convinto che il nemico non è lui ma l’altro, quello che parla una lingua vicina all’inglese e fa guerra per interposta Ucraina,
dovrebbe sapere bene chi è colui che difende. Altrimenti si combatte, di qua o di là della barricata, solo perché si ha uno spasmodico bisogno di avere un nemico. Cosa dice Putin, per contestualizzare la guerra contro l’Ucraina e convincere i suoi cittadini, i suoi soldati e i suoi intellettuali che trattasi di guerra giusta? Dice che la causa di tutti i mali viene da lontano ed è attribuibile a Lenin e ai bolscevichi che scegliendo lo stato federale hanno dato dignità e autonomia a Paesi vassalli della Grande Russia, accreditando per esempio l’Ucraina come stato e gli ucraini come popolo e per di più, hanno generato una Costituzione che consentiva ai suddetti stati-non stati di decidere se restare nell’Unione sovietica o se abbandonarla scegliendo l’indipendenza. Oggi invece, l’interpretazione scelta dai media italiani, europei e anglosassoni per definire Putin è che il tiranno russo non sarebbe altro che un figlio o forse figlioccio di Stalin e dell’Urss. In questo modo si mette in campo la suggestione dell’orso sovietico, nel tentativo di stimolare paure ancestrali e ricordi, immagini antiche della guerra fredda, scomuniche papali ai comunisti, quando i manifesti davanti ai seggi elettorali ammonivano: “Dio ti vede Stalin no”, e che i comunisti mangiavano i bambini mentre ora hanno cambiato menù e si accontentano di ammazzarli con le bombe lanciate contro gli ospedali. La lettura dell’originale del Putin-pensiero andrebbe consigliata anche a chi pensa che in fondo in fondo Vladimir ha ragione e spera in una sua vittoria sul campo contro i nazisti ucraini. Parlo di una minoranza che alberga nelle fila della sinistra, di chi, e ne conosco qualcuno, è incattivito dalla nostalgia per il due blocchi, Usa contro Urss, e rimpiange l’equilibrio del terrore terminato con la fine del socialismo reale. Ma nel tentavo espansionistico di Mosca vede un film sbagliato: Putin non è il capo di uno dei due blocchi che erano anche portatori di modelli sociali, economici e culturali diversi, oggi di blocco ne è rimasto uno solo. Tralascio il fatto che la paura, più che legittima, dell’egemonismo americano non può spingere dalla parte di chi si vorrebbe che fosse ma non è Giuseppe Stalin. Ma questa è una riflessione personale di chi con lo stalinismo ha rotto ogni sia pure solo ereditato rapporto appena è stato in grado, anagraficamente, di intendere e volere. Che cosa può mai avere a che fare con qualsivoglia idea di sinistra uno che solo 4 anni fa ha messo fuori legge il sindacato metalmeccanico, complice di aderire allo stesso sindacato multinazionale di cui fanno parte Fiom, Fim e Uilm e un’altra cinquantina di organizzazioni in giro per il mondo? Il tribunale di San Pietroburgo lo accusa di aver raccolto firme per modificare l’orrenda legislazione russa sul lavoro, e tanto è bastato perché fosse messo a tacere. Putin fa semplicemente quel che da noi Confindustria e parte non secondaria della politica sognano ma non riescono a realizzare. Putin non è figlio né figlioccio di Stalin, tampoco di Lenin. Semmai è un figliastro, o meglio un nipotastro della cultura imperiale zarista, per liberarsi della quale Lenin e i bolscevichi fecero la rivoluzione cosiddetta d’ottobre. Non c’entra niente, Putin, con l’ottobre rosso perché di rosso ha solo le mani sporche di sangue. Scriveva Ivan IV Vasil’evic detto Ivan il terribile in una lettera ad Andrej Kurbskj, il nobile russo prima amico e poi oppositore: “Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli, il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato. Se non obbedite al sovrano quando egli commette un’ingiustizia, non solo vi rendete colpevoli di fellonia, ma dannate la vostra anima, perché Dio stesso vi ordina di obbedire ciecamente al vostro principe”. Vi ricorda qualcuno, questo zar di tutte le Russie? Solo partendo da un principio di realtà, solo con la cultura che dovrebbe averci vaccinato rispetto al veleno delle bugie di guerra, è lecito prendere posizione, a favore, sia pur con tutti i distinguo, o contro la guerra di Putin. Dando a Putin il suo vero nome, Ivan IV Vasil’evic e non Iosif Vissarionovic Dzugasvili, per esempio, si può comunque dire che armare gli ucraini è una follia che alimenta nuova guerra e non allunga la vita di un solo bambino che ha avuto la sfortuna di nascere e crescere sotto le bombe. E sempre chiamando per nome Putin si può, al contrario, sostenere il dovere morale di aiutare con ogni mezzo la resistenza ucraina (possibilmente senza impropri e inaccettabili paragoni con la Resistenza al nazi-fascismo), a prescindere dalle conseguenze per l’Ucraina e l’umanità. Anche le bugie non sono più quelle di una volta, è come se le loro gambe si fossero allungate a dismisura. Le bugie e i non detti, i non visti. Delle stragi di Putin oggi vediamo tutto, i civili ammazzati ci vengono sbattuti in faccia ora dopo ora tra una pubblicità del farmaco contro la prostata e un varietà. I 14 mila russofoni ammazzati nel Donbass negli ultimi otto anni, invece non li abbiamo visti, come non abbiamo commentato i cinquanta morti ammazzati dentro e fuori la sede sindacale di Odessa dai nazisti del battaglione Azof, come ci ricorda il presidente di Pax Christi, il vescovo Giovanni Ricchiuti. Questo vuol dire che i crimini dell’uno pareggiano quelli dell’altro? Al contrario, i crimini dell’uno si sommano a quelli dell’altro in una spirale criminale in cui le responsabilità maggiori sono del più forte, cioè della Russia, senza però assolvere il più debole. Senza dimenticare. Dire che prima delle foibe ci sono stati i crimini dei fascisti italiani contro il popolo jugoslavo non vuol dire che le foibe siano state una risposta giusta, ma è indubbio che siano state una risposta. Così come ricordare le vittime del Donbass non significa che le bombe di Putin sull’Ucraina possano nobilitare a “giusta” la sporca guerra di Putin. I bambini del Donbass valgono come quelli di Kiev e come i bambini di tutto il mondo e di tutte le guerre. Gli uni e gli altri vanno salvati e per farlo, oggi, bisogna fermare una guerra combattuta intorno, e dentro, le centrali nucleari. Anch’esse andrebbero salvate, e poi magari chiuse. Armare la resistenza ucraina contro una potenza che oltre alle centrali ha anche le bombe nucleari avvicina o allontana la pace in Ucraina e nel mondo? A chiamare Putin Stalin e bolscevichi i soldati russi si fa un falso storico, così come a chiamare il presidente russo Hitler, per di più banalizzando quel che è stato il peggiore dei crimini del Secolo breve: lo sterminio di ebrei, rom, antifascisti, handicappati, omosessuali. Si può ragionare – noi che il rumore delle bombe lo sentiamo solo in tv, speriamo non solo per ora – e persino litigare a partire da un principio di realtà, evitando di aumentare la quantità di bugie di guerra messe in circolazione da un’informazione embedded, al di qua e al di là del nuovo muro? Un’ultima considerazione. La prima vittima della guerra è la verità. Ma c’è una verità almeno che andrebbe salvaguardata: la guerra rende chi combatte per la libertà sempre più simile a chi combatte per cancellarla, mina nel profondo la democrazia e le coscienze. I partigiani l’avevano capito benissimo, e per questo vollero fortissimamente l’articolo 11 nei principi fondamentali della Costituzione: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. FONTE: il manifestoinrete