Sgomento, orrore, sconforto… A quasi una settimana dall’inaudita strage di civili perpetrata da Hamas in Israele ancora fatico a trovare le parole per esprimere un pensiero compiuto. Provo a mettere in fila i (pochi ma essenziali) punti fermi. La condanna che è stata espressa con forza e senza alcuna ambiguità dalla Segretaria del mio partito,
così come la solidarietà con Israele e il riconoscimento del suo diritto a difendersi, mi rappresentano totalmente. Non c’è nessuna causa che possa giustificare un’azione di guerra terroristica come quella che abbiamo visto sabato scorso contro i giovani del rave party, le famiglie, i bambini e i vecchi dei Kibbutz, le donne violentate, gli ostaggi civili rapiti e portati all’interno della Striscia di Gaza come scudi umani. E quella condanna, non è scemata e non potrà scemare neppure in questi giorni drammatici in cui vediamo cadere altre vittime, anch’esse civili, da parte palestinese. Non è la contabilità delle vittime che fa diminuire la gravità assoluta di quell’attacco premeditato e lungamente preparato da Hamas che ancora una volta, e oggi con maggiore disprezzo della vita, sta mettendo a repentaglio l’esistenza di oltre due milioni di Palestinesi che vivono a Gaza. Impedire l’escalation ed evitare che altri civili innocenti possano essere uccisi in questa nuova e sanguinosa guerra è, o almeno dovrebbe essere, un obiettivo comune di tutta la comunità internazionale. Perché l’estensione del conflitto può comportare conseguenze prevedibilmente disastrose in un’area già carica di conflitti e tensioni – dalla Siria, allo Yemen, dal Libano alla Libia, dall’Iraq all’Iran, all’Afghanistan, per guardare a quello che alcuni studiosi hanno definito il Grande Medio Oriente – mentre prosegue la guerra della Russia di Putin contro l’Ucraina. Cercare dunque di circoscrivere il conflitto e di fermare prima possibile le armi tra Hamas e Israele non è sintomo di debolezza da “pacifisti imbelli” ma di razionalità e buon senso. Così come è sacrosanto lavorare perché il diritto di Israele a rispondere militarmente all’aggressione di Hamas si realizzi nel rispetto del diritto internazionale e proteggendo la vita dei civili palestinesi. L’assedio totale della Striscia, i bombardamenti indiscriminati e da ultimo l’ultimatum di 24 ore per l’evacuazione di 1,1 milioni di persone dal nord di Gaza rischiano di provocare una strage di civili palestinesi. Hamas non è il popolo palestinese, abbiamo detto tutti. Sconfiggere militarmente Hamas dunque non può comportare l’annientamento della popolazione di Gaza. L’appello delle Nazioni Unite per revocare l’ultimatum deve essere sostenuto accanto alla richiesta di corridoi umanitari per consentire l’uscita da quella gabbia mortale di tutti i civili che lo vogliano, a cominciare dai bambini e dalle persone più fragili. Non possiamo assistere ad una catastrofe umanitaria che, lungi dal portare sicurezza e pace ad Israele, avrebbe come conseguenza solo di accrescere i lutti, l’odio e la violenza. Oggi sono queste le priorità. Essere vicini ad Israele nella lotta contro il terrorismo, evitare l’allargamento del conflitto, prevenire un disastro umanitario. E, pensando agli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, fare tutto il possibile per ottenere la loro liberazione. E’ essenziale usare tutti i canali formali e informali per raggiungere questi obiettivi anche attraverso una tregua umanitaria, così come proposto dall’Egitto. L’Europa può e deve fare la sua parte, a fianco degli Stati Uniti, nel dialogo con i Paesi arabi dell’area. La condanna della Lega Araba e le parole dello stesso Presidente dell’ANP Abu Mazen devono portarci a costruire una coalizione più ampia possibile per sconfiggere, anche politicamente, le fazioni violente ed estremiste del campo palestinese. Ma qui siamo già al dopo… E’ prematuro ragionare sul dopo, mentre ancora troppo forte è il clamore delle armi e grandi ancora i rischi di un’escalation. Ma prima o poi, e io spero prima che poi, le armi taceranno. E dovremo fare ogni sforzo di fantasia e di volontà per ritrovare un filo di dialogo diplomatico e politico. A due condizioni che oggi mi sembrano chiare. La prima: non dimenticare la Cisgiordania. Nei decenni che ci separano dalle speranze suscitate dagli accordi di Oslo (di cui ormai solo quelli della mia generazione parlano con accenti nostalgici e rammarico per tutti gli errori che ne hanno provocato il fallimento) è cresciuta la sfiducia, le condizioni di vita nei Territori Palestinesi sono peggiorate, l’ANP si è indebolita, anche per non essere riuscita a contrastare la corruzione, e il panorama politico palestinese si è frantumato, con un oggettivo aumento dell’influenza delle frange più radicali. A ben vedere è questo il motivo per cui Israele e la stessa ANP non hanno voluto fissare elezioni negli ultimi anni, per paura che Hamas potesse prevalere anche in Cisgiordania. Ma questo – unito alla politica dei Governi Netanyahu di aumento degli insediamenti attorno a Gerusalemme e nella West Bank – ha reso sempre più difficile far sentire la voce dei tanti Palestinesi che vogliono solo poter vivere una vita dignitosa nella loro terra. Insomma, per riprendere il filo credo che dovremo tornare a conoscere quei luoghi, quel popolo, parlare con la società civile, con i sindaci, con le Università, con le comunità religiose cristiane che resistono in quella terra difficile. E per questo occorrerebbe aumentare (non tagliare, come sta facendo il Governo italiano!) la cooperazione allo sviluppo, per ricostruire un clima di fiducia, di speranza e dare a quei giovani una prospettiva di vita ragionevole, degna. La seconda condizione: abbandonare l’illusione – coltivata con gli accordi di Abramo – che possa esistere una pace durevole e giusta senza risolvere la questione palestinese. Gli accordi di normalizzazione delle relazioni tra gli Stati arabi e mussulmani e Israele sono stati e restano un fatto positivo in se’ ma non garantiscono la pace e la sicurezza di Israele se non si darà una risposta convincente al legittimo diritto dei Palestinesi ad un loro Stato indipendente. “Due Stati per Due Popoli”, nonostante appaia una prospettiva impossibile da raggiungere resta tuttavia l’unica bussola che abbiamo per cercare la pace e la convivenza in una regione al cui destino – come Italiani e come Europei – siamo indissolubilmente legati.