di Vito Marino (foto accanto) - Nella Sicilia dei nostri nonni, in occasione del matrimonio, terminato “lu trattinimentu” con suoni, balli e distribuzione di dolciumi e liquori, gli sposi, accompagnati dai parenti e dai musicanti, si recavano alla loro nuova dimora; qui, prima di essere lasciati soli,
si eseguiva l'ultima suonata attorno al letto nuziale. Riguardo al letto nuziale, c’era l’usanza indiscussa d’essere “cunzatu” (preparato) dalla madre della sposa e da un’altra donna sposata. L'indomani mattina le consuocere, accompagnate da una comare, andavano ufficialmente a portare roba da mangiare sostanziosa ed a dare la "bbona livata" (il buon giorno e a rallegrarsi con gli sposi, per avere già trascorso la prima notte di matrimonio). In realtà esse andavano a constatare di presenza “la prova” (l’avvenuta consumazione del matrimonio e quindi la verginità della sposa). Si arrivava all'assurdo di mettere stese le lenzuola macchiate di sangue, per rendere conto e appagare la curiosità dei parenti e conoscenti messi fuori ad aspettare (un'usanza tuttora vigente presso i popoli musulmani). Non posso testimoniare in merito, perchè durante la mia fanciullezza non ho mai visto o sentito parlare di una cosa simile, evidentemente questa usanza vigeva fino al 1940 – 45 o non si parlava di questa usanza davanti ai ragazzi. Se per una malaugurata cattiva sorte della sposa non c'era perdita di sangue (la scienza medica parla di casi molto comuni), lo sposo, indignato, riportava la sposa dai suoceri mettendo in discussione l'inganno subito. Indubbiamente, il rispetto di tale usanza, non rappresentava una regola fissa, tutto dipendeva dal carattere ferreo ed intransigente della suocera. Per otto giorni gli sposi restavano chiusi dentro, senza andare fuori, anzi non si facevano vedere nemmeno davanti alla porta di casa; nessuno andava a trovarli, tranne i genitori, che però entravano e uscivano anch'essi come clandestini. Insomma nessuno doveva vedere i visi dei. “peccatori” perché guardandoli in faccia avrebbero potuto scorgerne i segni. Dopo otto giorni uscivano per la prima volta per andare ad assistere alla messa; erano timorosi di farsi vedere in giro, perché erano da tutti additati (quasi come un marchio di colpa) come gli "sposini", che avevano "consumato" il matrimonio. Così, facevano il loro ingresso in società, si costituivano davanti al tribunale dell'opinione pubblica. Lui vestendo i panni del giorno nuziale, orgoglioso e fiero, quasi sfidante, col sorriso sul viso, felice di mostrarsi e di mostrare la sposa dopo essere stati per otto giorni prigionieri d'amore. Lei indossava “l’abitu di li ottu iorna”, cioè un vestito nero da cerimonia, ravvivato da un bel fiore, con l’immancabile cappello ornato di piume e fronzoli vari. Prima degli anni ’40 le sposa indossava il vestito migliore, con lo scialle nuovo ricamato che le copriva la testa e le spalle: La sposa. stretta al braccio del marito teneva gli occhi bassi per evitare lo sguardo indagatore della gente. Nelle periferie e nei cortili tutti i vicini stavano davanti alle porte o affacciati alle finestre curiosi di vedere la prima uscita dei novelli sposi. Essi si recavano prima a messa, poi in visita ai parenti più intimi; innanzitutto dai genitori dello sposo e della sposa, quindi dai compari e dai parenti ed amici più stretti. Questo giro di visite si chiamava “lu giru di li sposi”, per ringraziarli d’essere stati presenti al matrimonio; inoltre portavano dolci e confetti a quegli invitati che, pur avendo fatto il regalo, non erano stati presenti alla cerimonia. Tutti i parenti e amici li accoglievano festosamente, ma tutti per curiosità scrutavano i loro volti con occhio furbesco, come se dovessero scoprire in quei visi chissà quali mutamenti, rispetto a prima di “quella notte” Da quel momento la vita degli sposi tornava alla normalità lui sarebbe tornato ai lavori di campagna, lei col fazzoletto “a murriuni” attaccato alla testa a impastare pane e pasta, a curare la casa e ad allevare galline. Nei piccoli paesi della Sicilia l'opinione, il giudizio della gente conta. La “gente” dagli occhi di lince ti scruta e di spoglia della tua intimità, anche quando per strada non c’è nessuno cento occhi ti scrutano da dietro le persiane o attraverso le porte messe a “vanidduzza” di proposito. Un proverbio infatti diceva “li mura hannu l’occhi e li troffi hannu l’aricchi”. Scoperti i tuoi segreti fra la gente avviene “lu sparliu” (si parla male e a sproposito) Si tratta di un avvenimento tipico di tutte le piccole comunità come quelle degli sperduti paesi siciliani. Tuttavia questo sistema di sapere tutto di tutti portava anche ad una forma di umana solidarietà, per cui ciascuno partecipava agli altrui casi come fossero propri, con spirito altruistico, vuoi che fossero fatti lieti o di mestizia. Se uno si sposava, o moriva o gli nasceva un figlio, o aveva ricevuto un calcio dal mulo, il paese ne parlava, vi prendeva parte; così che nessuno era mai solo nel proprio dolore o nella propria gioia. Se le campane di una chiesa suonavano a morto, sapendo tutti chi era il paesano che trovavasi più di là che di qua, e, a seconda della chiesa da cui giungeva il suono era facile individuare chi fosse il morto di turno. ” Dopo gli anni ’50 gli sposini, subito dopo il trattenimento, incominciarono a partire per il viaggio di nozze e molte di queste consuetudini a poco a poco scomparvero. Ricordo che allora passava dalla stazione di Castelvetrano una “littorina” (automotrice) verso le ore 18; tutte le coppie, da Marsala a Palermo, salivano su questo treno, in tempo utile per potere pernottare a Palermo. Per questo motivo era chiamato: “il treno degli sposini”. VITO MARINO